Essere Ricardo Montero
martedì 24 gennaio 2012
sabato 21 gennaio 2012
mercoledì 11 gennaio 2012
PRE-APPELLO DEI GG. 19-20 GENNAIO 2010 (elenchi provvisori)
SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI
ELENCO PRENOTATI PER LA PROVA DEL 19 gennaio 2012 - ORE 10 (AULA MAGNA)
Alescio Francesca
m13 1848
Amore Emanuele
m13 1969
Aprea Anna
m13 1811
Barone Fabiana
m13 2104
Beatrice Annunziata m13 1000
Brancato Maria
m13 1671
Brancato Simona m13 1733
Cacace Francesca
m13 2056
Calabrese Lodovica m13 297
Cammarota Anna Chiara m13 1678
Canale Marco
m13 1833
Capasso Immacolata m13 1970
Cecere Mariantoniella m13 1769
Ceglia Maria
m13 1668
Cerchia Melissa
m13 1929
Chianiese Giuseppina m13 1626
Chiarolanza Stefania m13 1855
Clemente Roberta m13
1790
Colosimo Carmela 027 17579
Cosentino Alice
m13 171
Cosentino Mirko
m13 1721
Cozzolino Marina m13
1822
De Gennaro Sara m13
900
De Girolamo Pasquale m13 1836
Del Prete Palma m13
591
Del Savio Gabriella m13 1697
D'Errico Giovanni 027/023506
Di Rienzo Gianni
m13 1769
Donnarumma Federica m13 1703
D’Apolito Filomena m13 1448
SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI
ELENCO PRENOTATI PER LA PROVA DEL 20 gennaio 2012 - ORE 10 (AULA MAGNA)
Formato Marta
m13 1786
Fusciello Fabiana m13
1384
Gatto Eleonora
m13 1389
Iannone Sara
m13 1795
Infante Maria
m13 063
Lettieri Chiara
m13 2508
Lobefalo Marzia
m13 1921
Loffredo Martina m13 934
Lusidioso Anna
m13 2092
Maglio Fabiola
m13 1724
Marotta Ilaria
m13 1827
Masi Flavia
m13 1634
Mastrodonato Silvia m13 1895
Mastrogiacomo Alba C. m13 1260
Messere Anna
m13 1926
Oliviero Anna
m13 1704
Parisi Annabella
m13 1264
Pinto Paola
m13 990
Pirozzi Annamaria m13 1675
Porcelli Vriginia
m13 1226
Ruffo Rosa
m13 1726
Russo Marica
m13 1684
Saccavino Luciana m13 1725
Sarnataro Antonia m13 1706
Savarese Valeria m13 1708
Scognamillo Michela m13 257
Silvestri Rita
m13 1922
Somma Miriam m13 1909
Tortora Alessandro m13 233
Trapani Maria m13
2024
Valente Donatella m551 6631
Vitolo Roberta m13 1927
Volante Simona m13 1143
Chi desidera cancellarsi dagli elenchi dei prenotati può farlo, entro e non oltre lunedì 16 gennaio, inviando una mail al seguente indirizzo: pecchine@unina.it
Martedì 17 gennaio verranno pubblicati gli elenchi definitivi
Chi desidera cancellarsi dagli elenchi dei prenotati può farlo, entro e non oltre lunedì 16 gennaio, inviando una mail al seguente indirizzo: pecchine@unina.it
Martedì 17 gennaio verranno pubblicati gli elenchi definitivi
Tutte le delucidazioni relative al programma per i frequentanti sono state fornite durante il corso
domenica 8 gennaio 2012
domenica 1 gennaio 2012
Elenco prenotati appello-frequentanti
SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI
19 e 20 gennaio 2012
Alescio Francesca
m13 1848
Amore Emanuele
m13 1969
Aprea Anna
m13 1811
Barone Fabiana
m13 2104
Beatrice Annunziata m13 1000
Brancato Maria
m13 1671
Brancato Simona m13 1733
Cacace Francesca
m13 2056
Calabrese Lodovica m13 297
Cammarota Anna Chiara m13 1678
Canale Marco
m13 1833
Capasso Immacolata m13 1970
Cecere Mariantoniella m13 1769
Ceglia Maria
m13 1668
Cerchia Melissa
m13 1929
Chianiese Giuseppina m13 1626
Chiarolanza Stefania m13 1855
Clemente Roberta m13
1790
Colosimo Carmela 027 17579
Cosentino Alice
m13 171
Cosentino Mirko
m13 1721
Cozzolino Marina m13
1822
De Gennaro Sara m13
900
De Girolamo Pasquale m13 1836
Del Prete Palma m13
591
Del Savio Gabriella m13 1697
D'Errico Giovanni 027/023506
Di Rienzo Gianni
m13 1769
Donnarumma Federica m13 1703
D’Apolito Filomena m13 1448
Figliuolo Noemi
m13 1748
Formato Marta
m13 1786
Fusciello Fabiana m13
1384
Gatto Eleonora
m13 1389
Iannone Sara
m13 1795
Infante Maria
m13 063
Lettieri Chiara
m13 2508
Lobefalo Marzia
m13 1921
Loffredo Martina m13 934
Lusidioso Anna
m13 2092
Maglio Fabiola
m13 1724
Marotta Ilaria
m13 1827
Masi Flavia
m13 1634
Mastrodonato Silvia m13 1895
Mastrogiacomo Alba C. m13 1260
Messere Anna
m13 1926
Oliviero Anna
m13 1704
Parisi Annabella
m13 1264
Pinto Paola
m13 990
Pirozzi Annamaria m13 1675
Porcelli Vriginia
m13 1226
Ruffo Rosa
m13 1726
Russo Marica
m13 1684
Saccavino Luciana m13 1725
Sarnataro Antonia m13 1706
Savarese Valeria m13 1708
Scognamillo Michela m13 257
Silvestri Rita
m13 1922
Somma Miriam m13 1909
Tortora Alessandro m13 233
Trapani Maria m13
2024
Valente Donatella m551 6631
Vitolo Roberta m13 1927
Volante Simona m13 1143
lunedì 28 novembre 2011
Testi d'esame 2011-2012
I libri consigliati per sostenere l'esame di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi (a. a. 2011-2012) sono i seguenti:
Gianfranco Pecchinenda, La Narrazione della Società
Federico Campbell, Padre e Memoria
Marcel Gauchet, La democrazia da una crisi all'altra
Un quarto testo a scelta tra i seguenti:
L. Ferry M. Gauchet, Il religioso dopo la religione, Ipermedium libri
M. Maffesoli, Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna, Ipermedium libri
D. De Rougemont, Nuove metamorfosi di Tristano, Ipermedium libri
J.-J. Wunenburger, L'uomo nell'era della televisione, ipermedium libri
Tutti gli studenti iscritti agli anni accademici precedenti conservano il diritto di poter scegliere di sostenere l'esame sui testi indicati nel loro anno accademico di riferimento.
Si ricorda che l'orario di ricevimento per il primo semestre 2011-2012 è il Mercoledì dalle 12 alle 14
Gianfranco Pecchinenda, La Narrazione della Società
Federico Campbell, Padre e Memoria
Marcel Gauchet, La democrazia da una crisi all'altra
Un quarto testo a scelta tra i seguenti:
L. Ferry M. Gauchet, Il religioso dopo la religione, Ipermedium libri
M. Maffesoli, Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna, Ipermedium libri
D. De Rougemont, Nuove metamorfosi di Tristano, Ipermedium libri
J.-J. Wunenburger, L'uomo nell'era della televisione, ipermedium libri
Tutti gli studenti iscritti agli anni accademici precedenti conservano il diritto di poter scegliere di sostenere l'esame sui testi indicati nel loro anno accademico di riferimento.
Si ricorda che l'orario di ricevimento per il primo semestre 2011-2012 è il Mercoledì dalle 12 alle 14
giovedì 27 ottobre 2011
La formula sociologica
Cosa Resta da Scoprire
Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno del 27 ottobre 2011
di Gianfranco Pecchinenda
Da quando l’uomo ha scoperto la sociologia, ovvero da quando
ha preso coscienza che la fonte di ogni cambiamento si svolge nell’ambito di un
complesso insieme chiamato società, si è sempre andati alla ricerca di una
sorta di formula in grado di poter legittimare il passaggio da una
strutturazione eteronoma dell’organizzazione umana a una autonoma.
Il dubbio di chi, come me, si occupa di scienze sociali, è
che una scoperta del genere, quale che sia il tipo di marchingegno elaborato
per portare a compimento la tanta agognata scoperta, potrebbe comportare, tra
le conseguenze inintenzionali, la fine delle possibilità di qualsivoglia tipo
di organizzazione sociale. Ogni società, infatti, esiste se e solo se i suoi
membri sono messi in grado di poter coltivare l’illusione di una qualche forma
di immortalità. C’è chi crede a un continuo e infinito ciclo di reincarnazioni,
chi crede in una vita eterna che avrebbe inizio subito dopo la fine dei tempi,
chi crede che la scienza possa curare la morte come se si trattasse di una
malattia tra le altre, causata da un sempre incombente male che bisogna dunque
combattere; c’è chi crede – in alternativa a quest’ultima posizione – che
l’invecchiamento possa essere frenato, rinviato, eliso e, con esso, anche la
morte stessa.
L’unica cosa certa, l’unico elemento in comune di tutte
queste credenze è la loro precarietà, il margine d’incertezza che si nasconde
dietro ad ogni possibile interpretazione del genere. Ed è proprio una tale
precarietà a far sì che tutti i partecipanti a tali sottomondi umani, pur di
far prevalere e di poter affermare il proprio riferimento immortale,combattano,
indaghino, facciano ricerca, provino a scoprire soluzioni. Come d’altronde fa
la scienza stessa.
Se la nascita della società moderna può essere considerata
la messa in forma politica dell’autonomia dell’organizzazione umano-sociale,
quello che manca da scoprire è la formula che possa rendere irreversibile (come
erroneamente si è creduto potesse essere già accaduto nel corso degli ultimi
due secoli) e universalmente accettato tale passaggio.
A lungo si è creduto che la secolarizzazione, ovvero la
perdita della centralità della religione in ogni ordine istituzionale, potesse
essere l’ingrediente essenziale di una tale potenziale formula. Il risultato
pratico, come tutti sappiamo, è stato spesso l’emergere e il diffondersi di una
nostalgia di assoluto che ha contribuito a forgiare ideologie ed esperienze
storiche di carattere totalitario.
La sociologia può contribuire a fornire uno strumento
d’analisi dei fenomeni sociali che si possa delineare come scevro da
condizionamenti ideologici. Ciò in modo da configurare una comprensione dei
fatti sociali e l’organizzazione delle relazioni umane tese a salvaguardare le
istanze dell’autonomia e l’attenzione alla libertà e al diritto dei singoli
individui.
venerdì 7 ottobre 2011
Gauchet et le néolibéralisme
Depuis quelques années, une obsession s'est emparée de notre
vie intellectuelle : le néolibéralisme. Reprise de livre en livre, de tribune
en tribune, l'idée selon laquelle l'enjeu essentiel de notre temps serait de dénoncer
l'invasion des logiques néolibérales ne cesse de s'imposer.
Le néolibéralisme,
nous affirme-t-on en effet, transformerait le fonctionnement du monde
contemporain. Il redéfinirait, bien sûr, les règles de l'économie. Mais plus
grave, il bousculerait l'organisation traditionnelle de la société. C'est tout
l'ordre social qui serait ébranlé par cette irrésistible lame de fond, et
toutes les institutions sur lesquelles il repose (l'Etat, l'école, la famille,
le droit, etc.) qui s'en trouveraient affectées : réfléchir
sur ce qui se passe aujourd'hui, établir
le diagnostic de notre présent, ce serait donc nécessairement devoir
se pencher
sur ces mutations, afin d'en évaluer
les dangers et de forger
des instruments pour leur résister.
On aurait pu espérer
que tant d'attention portée à un même sujet donne naissance à une production
particulièrement riche et inventive sur le plan des idées. Hélas ! Nous
assistons plutôt à une uniformisation et à une limitation de la vie
intellectuelle.
De la droite
(Marcel Gauchet) à la gauche pseudo-révolutionnaire (Alain Badiou), de la
gauche conservatrice (autour de la revue Esprit
ou de la République des idées de Pierre
Rosanvallon) à celle qui se présente comme radicale (autour d'Antonio Negri et
de la revue Multitudes), on voit fleurir
des analyses quasi superposables, qui mobilisent les mêmes perceptions, les mêmes
grilles de lecture.
Et au coeur de
ce concert unanime où le réflexe tient lieu de pensée, on trouve, bien sûr, une
dénonciation de l'individualisme. Le néolibéralisme instaurerait le règne du
moi, de l'égoïsme, du repli sur soi. Il fabriquerait un néosujet, l'homo oeconomicus, qui n'aurait aucun
sens de la communauté, du collectif et ne se considérerait plus comme membre
d'un groupe qui le dépasse : privilégiant toujours son intérêt particulier, il
n'accepterait plus de se soumettre
aux exigences indispensables pour faire ou
refaire société (les normes ou les valeurs partagées, la réciprocité). Le sens
du "social", de l'"institution commune", du "vivre ensemble" lui serait étranger
: aujourd'hui, le "nous "
serait subordonné au "je".
Dans ce
portrait apocalyptique de nos sociétés que tant d'auteurs se plaisent à brosser,
la critique des ravages du néolibéralisme économique passe vite au second plan.
Car ce qui est ici constitué comme l'enjeu principal, pour ne pas dire
unique, c'est la remise en cause des carcans collectifs qui enserraient et
dirigeaient les actions individuelles.
La logique du
marché et de la satisfaction particulière se développerait au détriment de l'obéissance
à la morale, à la religion, à l'Etat, à la politique, etc. Ces instances régulatrices
perdraient leur force prescriptrice. Et cette insoumission généralisée aux
principes supérieurs aurait des conséquences désastreuses.
D'une part,
elle provoquerait une crise du "lien
social" (la désaffiliation), du soin mutuel (le"care") et le
délitement des solidarités. Mais surtout, elle engendrerait une multiplication
des mouvements minoritaires, ces phénomènes pathologiques au sein desquels les
individus réclament des droits (on pourrait appeler
cela... la démocratie) et où ils expriment leur refus de s'aliéner
au monde du "symbole" et de
la "loi" au nom de leur désir.
Dernier échantillon
en date de cette litanie : l'ouvrage La
Société des égaux (Seuil, 428 p., 22,50 euros), où Pierre Rosanvallon prétend
que le néolibéralisme engendrerait une "décomposition
des démocraties-sociétés" ! L'individu néolibéral ne serait plus un "citoyen". Ce serait un "consommateur", et, par conséquent,
un être
"diminué", "a-social", qui ne se définirait
plus dans un lien avec autrui.
Et si cette désinscription
par rapport à l'ordre des obligations sociales a pu être
perçue, un moment, comme émancipatrice, elle déboucherait au final sur un démantèlement
des institutions collectives : l'accroissement des marges de liberté
individuelle aurait été payé au prix d'une "communautarisation
des singularités" et d'une "destruction
du monde commun".
Loin d'être
originale, cette manière de voir
constitue en fait, depuis plusieurs années, l'évidence partagée dans tous les
secteurs de l'espace intellectuel et politique (ce qui nous imposerait
d'ailleurs de nous pencher
sur un phénomène curieux : pourquoi des auteurs - ou, du moins des individus
qui se pensent comme tels - se succèdent dans l'espace public pour écrire
ce qu'il est déjà possible de lire
partout ailleurs et dire des
choses mille fois dites et redites ?). On pourrait citer
les écrits du sociologue Luc Boltanski.
Mais l'on se
contentera ici de mentionner
Alain Badiou.
Car l'auteur de L'Hypothèse communiste
(Nouvelles éditions Lignes, 2009) perçoit lui aussi la situation contemporaine
comme marquée par une "commercialisation
universelle", une "crispation
identitaire", et une "dilution
sociale ".
Et c'est la
raison pour laquelle il appelle à ressusciter
l'"idée communiste ", seule
capable selon lui de favoriser
le sentiment de chacun "d'appartenir
à un même monde" et le "développement
du même", contre la dynamique négative, car singularisante, des
affirmations identitaires.
Evidemment, on
ne peut que souscrire
à l'objectif apparent de tous ces discours : dénoncer
les effets désastreux du néolibéralisme. Mais derrière cette louable intention,
se dissimule en fait un tout autre projet politique, particulièrement inquiétant,
et même potentiellement dangereux.
Quelle est en
effet la hantise qui traverse ce dispositif idéologique ? Ce sont moins les inégalités
que ce qui est désigné comme l'"atomisation
de la société" et la pluralité. Par conséquent, la volonté de reconstruire
le "lien social", de redonner
du sens à la vie en "commun "
pourrait bien, sous couvert de s'en prendre
au néolibéralisme, n'être
qu'un effort réactionnaire pour annuler
l'une des caractéristiques majeures des sociétés démocratiques :
l'individualisation et la différenciation des modes de vie, et la prolifération
des mobilisations minoritaires.
Dans les appels
à restaurer
le "vivreensemble" contre
l'individualisme, les "valeurs
collectives" contre l'"intérêt
particulier", le goût de l'échange et des humanités contre la
marchandisation se dissimulent des pulsions d'ordre, des aspirations
autoritaires fort peu conformes à ce que l'on est en droit d'attendre
d'une théorie radicale - et même, tout simplement de la gauche.
Illustration
particulièrement symptomatique, l'ouvrage La
Nouvelle Raison
du monde (La Découverte, 2009), de Pierre Dardot et
Christian Laval
- qui coaniment, avec Antonio Negri, un séminaire intitulé "Du public au
commun". Leur texte, qui vaut surtout comme incarnation idéale - typique
du paradigme contemporain -, montre à quel point la critique du néolibéralisme
tend à s'opérer
au nom de fantasmes de régulation et d'encastrement particulièrement régressifs
et effrayants.
Selon eux "l'affaiblissement de tout idéal porté
par les institutions communes" donnerait naissance à une "désymbolisation" générale. La
logique néolibérale détruirait les interdits qui structuraient le sujet. Elle générerait
une crise des "voies
normatives" et des transcendances "régulatrices".
Bref, tout se
passe ici comme si la dangerosité du néolibéralisme résidait dans le fait que, à
cause de lui, les individus étaient moins assujettis à la loi commune... et
profitaient ainsi d'une possibilité plus grande de choisir
la vie qu'ils veulent vivre !
On croirait lire
du Benoît XVI : "Le rapport entre générations
comme le rapport entre sexes, autrefois structurés et mis en récit par une
culture qui distribuait les places différentes, sont devenus pour le moins
incertains. Aucun principe éthique, aucun interdit, ne semble plus tenir
face à l'exaltation d'un choix infini et illimité. Placé en état
"d'apesanteur symbolique", le néosujet est obligé de se fonder
lui-même, au nom du libre choix, pour se conduire
dans la vie. Cette convocation au choix permanent, cette sollicitation de désirs
supposés illimités fait du sujet un sujet flottant : un jour, il est invité à changer
de voiture, un autre de partenaire, un autre d'identité, un autre encore de
sexe, au gré du jeu de ses satisfactions et insatisfactions."
Elaborer une
pensée de gauche aujourd'hui nécessiterait de tourner
le dos à de telles incantations. Il nous faut fabriquer
une nouvelle théorie critique, qui ne fonctionnerait pas comme une machine à dénoncer
le matérialisme, l'individualisme, voire, tout simplement, la liberté, au point
de faire
l'éloge de l'ordre, de l'Etat, de la norme collective. Karl Marx s'en prenait,
en son temps, à ce qu'il appelait la "critique
précapitaliste du capitalisme".
Il nous faut
aujourd'hui rompre
avec la critique prélibérale du néolibéralisme. Ce qui nous imposerait de nous placer
résolument du côté du désordre, de la dissidence, et donc de l'émancipation.
lunedì 19 settembre 2011
Democrazia emotiva: Intervista a Marcel Gauchet
Gauchet
«Tra il XIX e il XX secolo, grazie all' avvento del potere rappresentativo, dell' eguaglianza tra le persone e dell' individualismo, la forma democratica si è sostituita all' organizzazione religiosa della società», spiega Gauchet, che in Italia è noto per Il disincanto del mondo (Einaudi)
«Il potere della monarchia e dell' aristocrazia, le enormi disuguaglianze, l' aspetto tradizionale dell' organizzazione temporale delle società, l' autorità dei modelli del passato, il primato della collettività sull' individuo erano tutti elementi che caratterizzavano l' organizzazione religiosa della società e che le democrazie hanno progressivamente ridimensionato».
In questo processo che ruolo svolgono i fenomeni totalitari della prima metà del Novecento? «La democrazia in cui viviamo ancora oggi è nata dopo la Seconda guerra mondiale proprio come reazione all' esperienza terribile dei totalitarismi, che possono essere letti come il tentativo di ricreare - con i mezzi della politica e all' interno di uno spazio laico - la precedente forma religiosa della società. Il fascismo, il nazismo e il comunismo sono religioni secolari, possiedono una marcata dimensione religiosa, pur presentandosi come movimenti antireligiosi».
Una delle caratteristiche dei totalitarismi è la relazione diretta tra il capo e il suo popolo... «Il potere totalitario s' incarna sempre in una persona, reinventando così il potere sacrale della monarchia. Hitler, Stalin o Mussolini sono la reinvenzione di una figura del passato. Fascismo, nazismo e comunismo sono ideologie, che, per quanto laiche, hanno svolto lo stesso ruolo svolto dal discorso religioso nelle società del passato, investendo ogni ambito della realtà e dando un senso al tutto. Attraverso il partito totalitario, l' ideologia e la figura del capo il totalitarismo cerca di ricreare qualcosa che assomiglia a una comunità organica».
Le democrazie nate alla fine della guerra hanno fatto di tutto per opporsi a tale eredità? «Certo, e al contempo hanno rifondato i vecchi regimi liberali. Le democrazie politiche europee, pur tra molte contraddizioni, sono riuscite a garantire un decisivo progresso rispetto al passato. Si sono ridefinite in tutti gli ambiti, riuscendoa stabilizzare i regimi democratici del dopoguerra. Dalla democrazia formale e astratta d' inizio secolo, si è così passati a una democrazia con contenuti più concreti che ha garantito la ricostruzione politica e economica dell' Europa del dopoguerra».
Questo modello, che ha iniziato a mostrare i primi segni di cedimento alla fine degli anni Settanta, è oggi in crisi? «Sì, e soprattutto in Italia. Le ragioni sono diverse, non ultima la mondializzazione che ha contribuito a rendere inefficaci i meccanismi politico-sociali che avevano consentito il boom economico. L' importanza dei media, la rivoluzione tecnologica e l' affermarsi di un individualismo sempre più marcato hanno rimesso in discussione l' assetto democratico tradizionale, riportandoci a una situazione che, seppure in termini molto diversi, ricorda quella dell' inizio del secolo scorso».
Chi governa sembra spesso impotente di fronte alle derive della mondializzazione. Per questo, c' è addirittura chi parla di governo delle cose... «E' vero, ma è un fenomeno ambiguo, perché non controllare politicamente l' economia è una scelta politica. L' idea che i mercati siano capaci di autoregolarsi, senza che non si possa o non si debba intervenire, è un' ideologia politica che si è imposta negli ultimi decenni dominati dal neoliberalismo. Non sono le cose che hanno preso il potere, siamo noi che l' abbiamo conferito loro. Diciamo spesso che viviamo in un mondo postideologico, dove non ci sarebbero più le ideologie, ma non è vero. Le ideologie ci sono eccome, anche se spesso le loro conseguenze vengono presentate come un dato di natura».
Perché l' immagine degli uomini politici oggi è tanto screditata? «La politica ha perso quel poco d' autorità naturale ereditata dal passato che ancora le restava, perché i politici hanno fatto di tutto per mettersi all' altezza dell' uomo qualunque, inseguendo il senso comune, l' opinione diffusa, puntando sulla comunicazione e sulla seduzione».
Sfruttando la scorciatoia del populismo? «Gli uomini politici vorrebbero far credere che conoscono i problemi della gente, proponendo soluzioni semplificate. L' appello al popolo - che però è una realtà sempre meno omogenea- implica spesso una qualche forma di demagogia. I moderni mezzi di comunicazione che per altro, in passato, hanno fatto benissimo alla democrazia - offrono possibilità infinite ai demagoghi. Dalla demagogia della semplicità a quella dell' emozione, che stimola le reazioni emotive più che il ragionamento».
In Italia, Berlusconi tenta spesso di contrapporre il popolo alle istituzioni... «Accade anche in Francia e in molti altri paesi europei. La retorica populista che oppone l' élite istituzionale al popolo incontra dappertutto un indiscusso successo, perché coglie qualcosa che è effettivamente sentito dalla parte più debole della popolazione, quella che ha meno strumenti per comprendere e intervenire sulla realtà. I populisti fanno appello al risentimento di chi si sente escluso, abbandonato e impoverito. Chi si sente relegato ai piani inferiori della società, senza la possibilità di modificare la propria vita, ha bisogno di credere in un potere capace d' intervenire concretamente. Chi è realmente senza potere sogna un potere forte».
La democrazia sopravviverà alla crisi attuale? «Solo se saprà rigenerarsi, avviando importanti trasformazioni, come quelle che hanno avuto luogo nel dopoguerra. In futuro i modi di governare si trasformeranno radicalmente e le forme della discussione pubblica diventeranno di nuovo centrali. Oggi siamo nella fase della stupefazione di fronte alla crisi. Da qui in poi inizia la fase della reinvenzione, anche se è difficile immaginare quali sarannoi risultati concreti. Un eventuale cambiamento potrà venire solo dai cittadini, i quali però negli ultimi anni hanno spesso preferito ripiegarsi nel privato. D' altronde, proprio l' onda lunga dell' individualismo e della disaffezione alla politica ha molto logorato la democrazia. Oggi, tuttavia, in molti iniziano a rendersi conto che è necessario tornare ad occuparsi dei problemi di tutti. E per questo che si torna alla politica. E questo è un fatto positivo».
Da "La Repubblica", 24 agosto 2011
«Il modello democratico nato nel dopoguerra è oggi in crisi. Pensavamo che avesse raggiunto l' equilibrio e invece siamo alle prese con problemi sempre nuovi. Se vuole sopravvivere, la democrazia deve sapersi reinventare».
Da molti anni Marcel Gauchet s' interroga sulle forme e i problemi della democrazia, una tematica a cui ha dedicato diversi studi, ultimo dei quali L' avènement de la démocratie, un vasto progetto, il cui terzo volume è arrivato nelle librerie da qualche mese: A l' épreuve des totalitarismes 1914-1974 (Gallimard). Lo studioso francese che insegna all' École des Hautes Études en Sciences Socialese codirige la rivista Le Débat - ricorda che il lungo processo attraverso il quale la democrazia si è affermata in Europa segna la progressiva fuoriuscita dal modello religioso che nei secoli precedenti aveva strutturato la società.«Tra il XIX e il XX secolo, grazie all' avvento del potere rappresentativo, dell' eguaglianza tra le persone e dell' individualismo, la forma democratica si è sostituita all' organizzazione religiosa della società», spiega Gauchet, che in Italia è noto per Il disincanto del mondo (Einaudi)
«Il potere della monarchia e dell' aristocrazia, le enormi disuguaglianze, l' aspetto tradizionale dell' organizzazione temporale delle società, l' autorità dei modelli del passato, il primato della collettività sull' individuo erano tutti elementi che caratterizzavano l' organizzazione religiosa della società e che le democrazie hanno progressivamente ridimensionato».
In questo processo che ruolo svolgono i fenomeni totalitari della prima metà del Novecento? «La democrazia in cui viviamo ancora oggi è nata dopo la Seconda guerra mondiale proprio come reazione all' esperienza terribile dei totalitarismi, che possono essere letti come il tentativo di ricreare - con i mezzi della politica e all' interno di uno spazio laico - la precedente forma religiosa della società. Il fascismo, il nazismo e il comunismo sono religioni secolari, possiedono una marcata dimensione religiosa, pur presentandosi come movimenti antireligiosi».
Una delle caratteristiche dei totalitarismi è la relazione diretta tra il capo e il suo popolo... «Il potere totalitario s' incarna sempre in una persona, reinventando così il potere sacrale della monarchia. Hitler, Stalin o Mussolini sono la reinvenzione di una figura del passato. Fascismo, nazismo e comunismo sono ideologie, che, per quanto laiche, hanno svolto lo stesso ruolo svolto dal discorso religioso nelle società del passato, investendo ogni ambito della realtà e dando un senso al tutto. Attraverso il partito totalitario, l' ideologia e la figura del capo il totalitarismo cerca di ricreare qualcosa che assomiglia a una comunità organica».
Le democrazie nate alla fine della guerra hanno fatto di tutto per opporsi a tale eredità? «Certo, e al contempo hanno rifondato i vecchi regimi liberali. Le democrazie politiche europee, pur tra molte contraddizioni, sono riuscite a garantire un decisivo progresso rispetto al passato. Si sono ridefinite in tutti gli ambiti, riuscendoa stabilizzare i regimi democratici del dopoguerra. Dalla democrazia formale e astratta d' inizio secolo, si è così passati a una democrazia con contenuti più concreti che ha garantito la ricostruzione politica e economica dell' Europa del dopoguerra».
Questo modello, che ha iniziato a mostrare i primi segni di cedimento alla fine degli anni Settanta, è oggi in crisi? «Sì, e soprattutto in Italia. Le ragioni sono diverse, non ultima la mondializzazione che ha contribuito a rendere inefficaci i meccanismi politico-sociali che avevano consentito il boom economico. L' importanza dei media, la rivoluzione tecnologica e l' affermarsi di un individualismo sempre più marcato hanno rimesso in discussione l' assetto democratico tradizionale, riportandoci a una situazione che, seppure in termini molto diversi, ricorda quella dell' inizio del secolo scorso».
Chi governa sembra spesso impotente di fronte alle derive della mondializzazione. Per questo, c' è addirittura chi parla di governo delle cose... «E' vero, ma è un fenomeno ambiguo, perché non controllare politicamente l' economia è una scelta politica. L' idea che i mercati siano capaci di autoregolarsi, senza che non si possa o non si debba intervenire, è un' ideologia politica che si è imposta negli ultimi decenni dominati dal neoliberalismo. Non sono le cose che hanno preso il potere, siamo noi che l' abbiamo conferito loro. Diciamo spesso che viviamo in un mondo postideologico, dove non ci sarebbero più le ideologie, ma non è vero. Le ideologie ci sono eccome, anche se spesso le loro conseguenze vengono presentate come un dato di natura».
Perché l' immagine degli uomini politici oggi è tanto screditata? «La politica ha perso quel poco d' autorità naturale ereditata dal passato che ancora le restava, perché i politici hanno fatto di tutto per mettersi all' altezza dell' uomo qualunque, inseguendo il senso comune, l' opinione diffusa, puntando sulla comunicazione e sulla seduzione».
Sfruttando la scorciatoia del populismo? «Gli uomini politici vorrebbero far credere che conoscono i problemi della gente, proponendo soluzioni semplificate. L' appello al popolo - che però è una realtà sempre meno omogenea- implica spesso una qualche forma di demagogia. I moderni mezzi di comunicazione che per altro, in passato, hanno fatto benissimo alla democrazia - offrono possibilità infinite ai demagoghi. Dalla demagogia della semplicità a quella dell' emozione, che stimola le reazioni emotive più che il ragionamento».
In Italia, Berlusconi tenta spesso di contrapporre il popolo alle istituzioni... «Accade anche in Francia e in molti altri paesi europei. La retorica populista che oppone l' élite istituzionale al popolo incontra dappertutto un indiscusso successo, perché coglie qualcosa che è effettivamente sentito dalla parte più debole della popolazione, quella che ha meno strumenti per comprendere e intervenire sulla realtà. I populisti fanno appello al risentimento di chi si sente escluso, abbandonato e impoverito. Chi si sente relegato ai piani inferiori della società, senza la possibilità di modificare la propria vita, ha bisogno di credere in un potere capace d' intervenire concretamente. Chi è realmente senza potere sogna un potere forte».
La democrazia sopravviverà alla crisi attuale? «Solo se saprà rigenerarsi, avviando importanti trasformazioni, come quelle che hanno avuto luogo nel dopoguerra. In futuro i modi di governare si trasformeranno radicalmente e le forme della discussione pubblica diventeranno di nuovo centrali. Oggi siamo nella fase della stupefazione di fronte alla crisi. Da qui in poi inizia la fase della reinvenzione, anche se è difficile immaginare quali sarannoi risultati concreti. Un eventuale cambiamento potrà venire solo dai cittadini, i quali però negli ultimi anni hanno spesso preferito ripiegarsi nel privato. D' altronde, proprio l' onda lunga dell' individualismo e della disaffezione alla politica ha molto logorato la democrazia. Oggi, tuttavia, in molti iniziano a rendersi conto che è necessario tornare ad occuparsi dei problemi di tutti. E per questo che si torna alla politica. E questo è un fatto positivo».
Da "La Repubblica", 24 agosto 2011
lunedì 12 settembre 2011
Recensioni
LA RITIRATA
DELLA MORTE E I FIGLI DEL DESIDERIO. UN’INDAGINE SULLA
CONTEMPORANEITÀ
di
Gianfranco Pecchinenda
Cos’è che ha
reso così particolare e specifica la società occidentale moderna? Cos’è che le
ha conferito quel carattere di assoluta unicità tra tutte le società mai
esistite nella storia? A domande del genere, com’è noto, molti studiosi hanno
provato a fornire risposte più o meno originali, più o meno complesse. Da
quelle che si rifanno a una sorta di determinismo tecnologico, in cui vengono
chiamate in causa, quali variabili indipendenti, a seconda dell’epoca,
strumenti quali la radio, il cinema o il telefono, piuttosto che la televisione
o i nuovi media; oppure a un determinismo opposto in cui vengono ripresi motivi
causali più tradizionali come la secolarizzazione e la scomparsa di riferimenti
etici più o meno trascendenti, il crollo dei valori familiari, lo sviluppo
economico e il consumismo, il conflitto politico, generazionale e così via. Il
sociologo francese Paul Yonnet, dal canto suo, in un volume appena tradotto in
italiano dal piccolo ma sempre attento ed elegante editore campano Ipermedium libri (Paul Yonnet, La ritirata della morte, pp. 534, euro
25), presenta una tesi particolarmente innovativa ed efficace: ogni tentativo
di analisi della modernità occidentale è destinato a restare parziale – egli
sostiene – se non si comprende un presupposto divenuto assolutamente universale
e sul quale si basa tutta l’organizzazione collettiva di questo tipo di
società, a partire dalla costituzione della famiglia fino a giungere alla più
complessa delle istituzioni. Tale presupposto è da ricercarsi nel fenomeno
epocale da lui definito la ritirata della
morte.
Con questa
espressione Yonnet intende riferirsi – come sintetizza efficacemente il
curatore dell’edizione italiana, Antonio Cavicchia Scalamonti – a quella
profonda transizione demografica che ha determinato la quasi scomparsa della
mortalità infantile, cui si è affiancata la notevole diminuzione della
mortalità dovuta al parto. A partire da questo fenomeno, sostiene Yonnet, tutta
una serie di indicatori convergono e spiegano molte delle più originali e
inedite caratteristiche dell’attuale società. Si va dalle trasformazioni della
struttura e delle funzioni della famiglia, passando per le metamorfosi nella
condizione femminile e paterna, all’emergere di una nuova psicologia delle età
e dei sessi, alla trasformazione dell’adolescenza, fino allo straordinario
riadattamento statistico tra fecondità
e mortalità che sta completamento
modificando l’antropologia del nostro mondo attuale.
A proposito
di quest’ultimo tema, forse il più significativo e problematico tra quelli
analizzati in questo prezioso volume, il sociologo francese individua tre stadi
della storia della progressiva riduzione della fecondità: il primo, che egli
definisce della riduzione attraverso
il matrimonio ritardato, avrebbe
caratterizzato in particolare la Cristianità medioevale; il secondo – della
riduzione nel matrimonio, è quello che ha regolamentato la fecondità fino
all’avvento dell’ultimo periodo, quello attuale, in cui la fecondità viene
controllata grazie alle tecniche contraccettive e all’aborto, dando vita – tra
le conseguenze principali – all’emergere di una nuova tipologia di individuo,
unica e assolutamente inedita: il figlio
desiderato.
In estrema
sintesi, se la finalità dell’istituzione-famiglia era un tempo quella di
provvedere alla realizzazione di un equilibrato ricambio generazionale, oggi la
sua funzione è completamente diversa: la riproduzione cambia senso, non è più
un obbligo sociale e il figlio diventa quasi solo ed esclusivamente un “figlio
desiderato”, ovvero voluto e programmato in modo molto razionale. Su di lui si
investe, e tale investimento rappresenta un chiaro indicatore di un diverso
orientamento psicologico della famiglia. Se a questo fenomeno aggiungiamo
quelli già accennati – e che Yonnet descrive facendo riferimento a un ricco
insieme di dati, tra cui, non ultimo, l’allungamento della vita media – ecco
emergere ulteriori significative trasformazioni, come ad esempio
l’impressionante concentrazione statistica della morte nelle età avanzate e la
conseguente completa ridefinizione delle età della vita. Il culto della
gioventù – frutto maturo di questi nuovi orientamenti – si sposa con la nuova
costruzione temporale in cui il futuro fa oramai agio sul passato, l’autorità e
il prestigio degli anziani seguono la generale valorizzazione della tradizione,
e la gioventù, intesa come proiezione nel futuro e anche come periodo di
formazione e preparazione per l’esistenza, viene sostanzialmente mitizzata e
presa a modello anche dagli stessi anziani.
Una delle
conseguenze più sconcertanti dell’intero processo sembra essere in conclusione
l’emergere di nuove generazioni che si sentono sempre più legittimate a
coltivare una perenne immaturità, accompagnata da un delirante sentimento di
immortalità. “Il figlio è allevato come un immortale in un mondo di immortali”
– chiosa Yonnet – e dietro questa negazione della morte si rivelano però,
assumendo forme sempre più preoccupanti, atteggiamenti che tradiscono tutta la
loro acerbità, quali l’esaltazione per il benessere fisico e il terrore per
ogni forma di malattia, il consumo ossessivo di morte negli spettacoli
televisivi sia di fiction che di informazione, così come molti dei comportamenti
al limite della patologia legati ai videogiochi e al gioco d’azzardo, al
consumo di alcol e di droghe, alla paura talvolta anche maniacale di essere
lasciati soli o di non essere sufficientemente, appunto, desiderati.
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