martedì 11 maggio 2010

Avviso

Il prossimo incontro del seminario di Sociologia della Conoscenza si terrà, come previsto, domani - mercoledì 12 maggio (ore 11-13, aula ovale)

lunedì 10 maggio 2010

recensioni

Videogiochi e cultura della simulazione
La nascita dell'‘homo game’


Il Giornale - martedì 6 aprile 2010

Il destino del software - Ma quali romanzi e film sono i videogame a dire chi siamo e saremo

Mentre l'industria del videogame iniziava a fatturare come e più del cinema, l'accademia cambiava atteggiamento nei suoi confronti. Sono passati i tempi in cui i giochi elettronici avevano sostituito la televisione nelle rampogne degli intellettuali. Il tono apocalittico, nei lavori seri, è quasi scomparso e nessuno si chiede più che fine farà la gioventù a causa delle console. Anzi, è nata la ludologia, parente stretta della sociologia e della semiotica, che si interroga sul significato culturale del videogioco. Non solo per quello che ci dice della nostra società ma anche per l'influenza sottile ma importante che esercita sul nostro modo di essere.

Gianfranco Pecchinenda, preside della Facoltà di Sociologia presso l’università Federico II di Napoli, ha appena ristampato un suo saggio del 2003, con una prefazione nuova di zecca (Videogiochi e cultura della simulazione. La nascita dell'homo game, Laterza). Aggiornamento necessario di un libro comunque ancora attuale perché in questo breve lasso di tempo è successo un po' di tutto. Non solo in termini di incontenibile avanzata economica. Oggi più di allora è forse chiaro qual è l'obiettivo dei giochi di maggior impatto: abbattere i confini tra i generi e mandare in pensione Hollywood come è evidente dalla sceneggiatura complessa di titoli quali Heavy Rain (l'equivalente di un thriller psicologico) ma perfino da quella di avventure modello Lara Croft come Dante's Inferno o la saga di God of War tanto per citare due titoli recenti (l'equivalente degli action movie).

Le nuove tecnologie, scrive Pecchinenda, «pretendono la trasparenza e l'immaterialità di ogni identità». In rete e davanti alla console, attraverso l'avatar che guidiamo, non siamo corporei, siamo informazione digitalizzata. Le nostre identità sono «ibride, molteplici, virtuali, superficiali ed elastiche». Cioè sempre meno vincolate da concetti quali «autenticità, profondità, rigidità o altre roccheforti intorno alle quali si è venuta strutturando per secoli l'identità occidentale moderna». E siamo sempre più liberi di sperimentare, spesso protetti dall'anonimato, aspetti magari sconosciuti o inavvertiti di noi stessi. Siamo dunque uomini di vetro, la somma delle notizie reperibili su di noi nel web e poco altro? Forse non è il caso di esagerare, visto che il mondo reale continua a esistere, ma la tendenza pare questa e vale la pena approfondire.

Perdiamo qualcosa, acquistiamo qualcosa. Nella società postmoderna, la superficie prende il posto della profondità, la simulazione supera la realtà, il gioco prevale sulla serietà. Questa è l'estetica del computer, che si estende rapidamente in tutti gli ambienti, inclusi quelli di lavoro. L'homo game forse non ha conoscenze enciclopediche (a che gli servono? Il sapere è disponibile in rete), in compenso è creativo di fronte alle difficoltà. Il video-game ha avuto un'importanza fondamentale in questo processo perché ha insegnato ad agire al di là delle costrizioni della realtà fisica. E non solo. Il videogame ha abituato a pensare al tempo in termini ciclici e non progressivi (anche se si muore, si può sempre ricominciare da capo, no?); e ci spinge a pensare il mondo come un regno incantato al quale bisogna sottrarre segreti, chiavi d'accesso per avvicinarsi al progetto originario del programmatore-dio: una visione tipica delle culture non secolarizzate, chiosa Pecchinenda. Infine. Il videogioco, come più in generale ogni tecnologia digitale, tende a creare comunità virtuali di appassionati, utenti, smanettoni e così via. Comunità che trovano il massimo esempio nei milioni di adepti dei giochi di ruolo (tipo World of Warcraft) sul web.

La filosofia del videogioco, almeno fino a questo punto, si direbbe anti-intellettuale: punta sull'emozione, sull'identificazione e sull'assorbimento in tribù vitalistiche, aliene da ogni progetto politico o ideologico. Il progresso ha isolato l'uomo e svelato i misteri della natura ma questo processo forse si avvia verso un esito paradossale: sarà proprio la tecnologia a reincantare il mondo e a restituire una dimensione comunitaria alle persone. Chi l'avrebbe mai detto nel 1972 davanti a Pong, la prima rudimentale simulazione del tennis?

Alessandro Gnocchi (IL GIORNALE 6/4/2010)

mercoledì 5 maggio 2010

Avviso

L'incontro seminariale di sociologia della conoscenza previsto per oggi è annullato e verrà recuperato Venerdì 7 maggio dalle 12 alle 14 (aula magna)

La auto(r)ficción en la literatura española y latinoamericana

Fallo, ergo sum.
La autoficción española entre la necesidad y el juego
Manuel Alberca (Málaga)


Me gustaría que estuviéramos de acuerdo al menos en definir la autoficción como una novela en la que el narrador y/o personaje detenta la misma identidad nominal de su autor. Las divergencias comenzarán justo después cuando queramos precisar qué entiende cada cual por novela o por identidad. Se convendrá no obstante que, independientemente de la explicación y significado de este fenómeno narrativo, las autoficciones son relatos híbridos, de premisas indeterminadas y de ubicación vacilante entre la novela (relato ficticio), que está regida por el principio de la libertad de imaginar con que el género faculta al autor para resultar verosímil, y la autobiografía (relato factual), regida por el “pacto autobiográfico” y por el anuncio de que se trata de un relato que quiere ser veraz. En fin, las autoficciones son textos en los que la incertidumbre y la ambigüedad se convierten en paradigma creativo para unos escritores y en reto interpretativo para sus lectores.

De qué hablamos cuando hablamos de autor: la autoficción de César Aira en Cómo me hice monja
Patricio Pron (Madrid)


En esta ponencia discutiré la creación de un pacto pretendidamente autobiográfico en la novela breve Cómo me hice monja (1995) del escritor argentino César Aira (1949-). En ella, Aira presenta un personaje que lleva su nombre y narra de manera autodiegética asuntos y acontecimientos propios de la vida del autor, postulando una identidad entre narrador, autor y personaje. Sin embargo, esta identidad es puesta en entredicho por la sucesión de contingencias sin motivo que contravienen el principio mimético que preside el relato, a las que hay que sumar una ambigüedad de género: los personajes se dirigen al narrador como a un niño, pero éste se presenta a sí mismo como una niña. En mi intervención estudiaré en detalle estos aspectos de la subversión del pacto autobiográfico, que convierten a Cómo me hice monja en una autoficción que nos obliga a preguntarnos una vez más quién o qué es un autor, al tiempo que propondré esta pregunta en el marco de lo que recientemente ha sido llamado el “giro autobiográfico de la literatura argentina” y propondré la incorporación de Aira a la serie de autores que cuestionan la hegemonía borgeana en la literatura argentina apoyándome en la comparación entre los elementos autoficcionales de Cómo me hice monja y los de relatos de Jorge Luis Borges como “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” y “Funes el memorioso”.

Antecedentes socio-culturales del relato autoficcional renacentista
Jaime Covarsí Carbonero (Sevilla)


El relato que identificamos normalmente como auto(r)ficcional es fácilmente atribuible a los textos que protagonizan el entorno ficcional renacentista, especialmente la novela picaresca, con el Lazarillo de Tormes a la cabeza, o sentimental, pensemos, por ejemplo, en la Cárcel de amor de Diego de San Pedro. Parece razonable, pues, preguntarse entonces por las condiciones socioculturales que rodean su emergencia en este período histórico, fundamentalmente aquellas que referentes a las nuevas formas de relación entre autores y público, presididas por la consolidación de la imprenta. Reflexión ésta que nos ayuda a comprender también, en última instancia, un modo nuevo de “estar en el mundo” impuesto por la particular visión renacentista.

Sin embargo, desde nuestro punto de vista, no debemos olvidar que la consolidación de esta propuesta literaria puede rastrearse en los textos medievales, que anticipan premonitoriamente la cristalización del nuevo género, en especial la mística y la poesía amorosa cortesana, cuya premisa del fingimiento amoroso nos orienta hacia la autoficcionalidad, sin olvidar la original apuesta del Arcipreste de Hita y su Libro de buen amor.

El zapping de sí mismo: Bellatin y el yo hipermoderno
Inés Sáenz (Tecnológico de Monterrey)


¿Qué cuenta Mario Bellatin cuando se cuenta a sí mismo en sus relatos El gran vidrio. Tres autobiografías y Underwood portátil. Modelo 1915 ¿Lo hace tal y como se ha hecho en la tradición autobiográfica que va desde el siglo V y sigue vigente en la actualidad, o se afilia más a las autoficciones producidas en las últimas décadas? Las etiquetas suelen descartarse cuando se quiere descifrar a profundidad textos complejos como los de Mario Bellatin. Sin embargo, éstas se vuelven necesarias como marco de referencia para entender cuál es el desafío escritural que propone, mismo que ha polarizado la recepción de su obra. Aprovecho dicha recepción para explorar cuestiones que atañen al universo bellatiniano: la ambigüedad genérica, el uso del metadiscurso, la obra inacabada, el reciclaje y la supresión de límites entre verdad y ficción. Propongo analizar dichos elementos a partir de un mismo eje: la escritura del yo. El objetivo de este estudio es indagar cómo se configura la primera persona en un espacio narrativo catalogado como autobiográfico por su propio autor, y -en estrecha relación con la figura de ese “yo”- cuál es la relación entre identidad, experiencia y escritura. Interesa, por último, trazar un paralelo entre este proyecto escritural y las reflexiones sobre el sujeto hipermoderno.

Bolaño y yo
Matei Chihaia (Lyon)


La autoficción desempeña una función central en la obra de Roberto Bolaño. Sin embargo, una novela como Los detectives salvajes alterna un discurso autobiográfico ficticio, el “yo“ de diversos narradores, con las sorprendentes coincidencias de la historia de uno de ellos, Arturo Belano, con la biografía del autor. A partir del modelo que propone Jorge Luis Borges en su breve texto “Borges y yo“, trataré de distinguir estos dos modos de transformar ficción en autoficción. Mientras que en el discurso novelesco, el uso múltiple de la primera persona cuenta como indicio unívoco de ficcionalidad, las interferencias entre “Belano” y Bolaño y los personajes recurrentes ponen en duda este mismo contracto de la ficción. No sería excesivo afirmar que se trata de fuerzas contradictorias, puesto que una se basa en los múltiples puntos de vista, y la otra en la poderosa forma de cohesión que constituye la identidad del autor. Con una lectura minuciosa intentaré reconstruir la función poética de esta contradicción.

Manèges (La casa de los conejos), o la elección de una postura híbrida
Laura Alcoba (Paris)


La ambigüedad genérica es el corazón mismo de Manèges. ¿Acaso se trata de una novela? ¿No cabría hablar de relato de infancia? ¿Tal vez de relato autobiográfico? ¿A no ser que se trate de otro engendro de la proteiforme nebulosa autoficcional? No logro colocar este breve libro en ninguna de estas casillas. A lo que se suma la extrañeza de haber trabajado en francés una materia prima que tenía en mente en castellano. ¿Acaso habría un intento de auto-traducción catártica?

No sólo no sé qué es Manèges sino que desde el principio fue esencial para mí no intentar siquiera zanjar el problema; por el contrario, mantener la duda y la indecisión. De hecho el subtítulo en la edición de origen (“petite histoire argentine”), al jugar sobre las diferentes vertientes de la palabra histoire, sitúa el libro en una frontera particularmente incierta y movediza entre realidad y ficción.

Pero no es sólo en este umbral en que la frontera entre realidad y ficción resulta borrosa. En el centro del libro, que recoge un episodio sangriento de la Historia argentina, se encuentra un cuento de Edgar Allan Poe, cuento que resulta ser el zócalo real de la teoría de la clandestinidad que se aplica en la casa de los conejos. Y es este mismo cuento que al final de Manèges va a aparecer teniendo un extraño vínculo con el final del libro – acontecimientos perfectamente reales que de cierto modo, para la narradora, el cuento de Poe anunciaba.

Sin pacto previo explícito: el caso de la autoficción
Annick Louis (Reims + Paris, CNRS-EHESS)

En tanto lectores, o espectadores, todos hemos sido alguna vez confrontados a una obra sin poder determinar, ni previamente ni durante la recepción, su especificidad genérica : ¿ficción? ¿obra referencial ? Cuando no han sido deliberadamente provocadas, estas situaciones de indefinición resultan, en general, de un mal funcionamiento de las instancias que rodean el texto; cuando son construcciones voluntarias (autoriales o editoriales), se trata de obras que buscan crear una ambigüedad en la recepción, con el objetivo de explotar el efecto estético creado por el carácter indeterminado del relato. En ambos casos, se trata de obras que se presentan sin pacto previo explícito (o cuyo pacto previo consiste en una ausencia de determinación en cuanto a su naturaleza ficcional o referencial). Cuando los dispositivos textuales contribuyen a mantener esta ambigüedad, puede decirse que estas obras se construyen sobre la tensión entre lo ficcional y lo referencial que no puede ser resuelta. Más que una categoría de textos, estos casos constituyen una realización, una situación de recepción que puede no prolongarse, puesto que se sustenta en una serie de elementos textuales y extratextuales cuyo valor no es fijo, sino que está determinado por las circunstancias de recepción. Por ello, aunque el fenómeno no es raro, parece cuestionar la definición de la ficción como pragmática. En este sentido puede hablarse de una inestabilidad constitutiva de este tipo de obras, que resulta difícil de aprehender en el análisis. Se trata de prácticas que vuelven permeables ciertas categorías, ciertas fronteras que han estructurado la reflexión teórica sobre las relaciones entre ficción y no ficción.

Dentro de los casos de obras que corresponden a esta categoría se destaca el de la “autoficción”. El objetivo de este trabajo es analizar las especificidades teóricas que presenta este tipo de relato, y resituarlo dentro de la categoría, más vasta, de las obras sin pacto previo explícito, teniendo en cuenta que una de las características específicas de la autoficción es su perdurabilidad. Se trata de un tipo de obras sin pacto previo explícito particularmente estable, cuya ambigüedad no depende de un momento particular de la recepción, ni de las características de una comunidad de lectores determinada.

La autoficción como autorficción en el Libro de buen amor, La Lozana Andaluza (1528), Niebla (1914/1935), y en la narrativa de Borges y de Gamerro
Sabine Schlickers (Bremen)


Remontando a los orígenes de la autoficción, presentaré primero un texto literario medieval y otro renacentista para demostrar que la literatura española tiene precursores importantes que los críticos no suelen mencionar al estudiar el presuntamente "posmoderno" subgénero autoficcional. El segundo aspecto importante tiene que ver con el título de nuestro coloquio, en el que se encuentra una "r" entre paréntesis, porque resulta que todos los ejemplos demuestran una metaléptica inscripción de la instancia del "autor", quien entra no sólo in verbis, sino además in corpore en su mundo narrado, por lo que la autoficción resulta ser a la vez una autor-ficción. Los ejemplos de Unamuno, Borges y Gamerro demostrarán que la extensión de la auto(r)ficcionalización puede ser puntual, abarcar algunos capítulos o bien el texto entero, por lo que habrá que repensar su categorización genérica.

Autoficción en teatro y cine
Vera Toro (Bremen)


En el mundo literario, la autoficción, sin duda, se ha puesto de moda, tanto entre los escritores como entre sus críticos. También en el ámbito de las pantallas y de los escenarios el avance del modo autoficcional se encuentra en pleno desarrollo, igual que hace tiempo ya es “materia” preferida del arte conceptual, del arte multimedial, de la fotografía, del internet, del cómic y hasta de la danza. El término de la autoficción parece tener todavía primacía literaria: aquí se habla de cine o teatro “autobiográfico experimental”, “autoperformance”, de “biodrama” o “visual autofiction”.

El sol del membrillo (E,1992) de Víctor Erice es una película excepcional llena de espejismos y reflexiones sobre el arte de retratar. La Virgen de los Sicarios (Barbet Schroeder, F/COL, 2000 con un guión de Fernando Vallejo) es a su vez una adaptación fílmica de una autoficción literaria homónima del autor colombiano que deambula por un Medellín de pesadilla. La obra teatral española El álbum familiar (José Luís Alonso de Santos, 1982) reúne recuerdos, sueños, fantasmas, pasado y presente en la mente de José Luís.

En mi conferencia pretendo aclarar las diferencias entre autoficciones literarias, por un lado, y dramáticas y fílmicas, por otro lado, en cuanto a su condición enunciativa, además de subrayar sus semejanzas y diferencias. Partiendo de la teoría de ficción en teatro y cine saltan a la vista las condiciones y las posibilidades del modo autoficcional en cada medio.

El poeta en el espejo. El yo lírico como instancia autoficcional
Ana Luengo (Bremen)


La mayoría de los estudios sobre la autoficción se refieren a textos narrativos, sin embargo, ya desde antiguo, se encuentra en la lírica la presencia del poeta ficcionalizado, donde se representa su persona y escritura como juego literario. En esta ponencia me gustaría analizar una posible construcción auto(r)ficcional en la lírica, teniendo en cuenta precisamente la evolución y características del yo-lírico dentro de la tradición hispana. Para ello, me concentraré en algunos poemas ejemplares desde el Siglo de Oro hasta la actualidad: “Desde la torre” de Francisco de Quevedo; “Estos versos lector mío” de Sor Juana Inés de la Cruz; “Yo soy un hombre sincero” de José Martí; “Retrato” de Antonio Machado; “Explico algunas cosas” de Pablo Neruda, y “Contra Jaime Gil de Biedma”, del poeta homónimo.
Narrando la guerra de Malvinas entre la autobiografía y la ficción: La flor azteca (G.Nielsen), Guerra conyugal (E.Russo) y Ciencias Morales (M.Kohan)
Victoria Torres (Colonia)

Los primeros libros relacionados con el último conflicto bélico entre Argentina e Inglaterra (2 de abril -14 de junio de 1982) aparecieron unos pocos meses después de terminado el mismo y consistieron en testimonios de los que resultaron más afectados: los soldados y sus familiares; así, por ejemplo, el más conocido de ellos, Los chicos de la guerra, de Daniel Kon contrapuso el drama en primera persona de quienes habían estado en el campo de batalla a los discursos oficiales y mediáticos que desde Buenos Aires habían querido hacer del enfrentamiento una gesta heroica nacional. La primera versión ficcional sobre el tema, Los pichiciegos, de Fogwill, fue publicada también en 1982, y adoptó la forma de una farsa desarticuladora no sólo de la versión propagada por el gobierno militar, sino también, en gran medida, de los relatos de las víctimas del enfrentamiento. Este tono farsesco inaugurado por Fogwill se mantendrá hasta nuestros días en la mayoría de los cuentos y novelas referidos a la guerra de Malvinas, pareciendo ser el modo más fuerte que ha tenido la literatura de narrar este difícil capítulo de la historia argentina. Sin embargo, paralelamente a esta tendencia se han escrito un puñado de obras en las que la experiencia personal de Malvinas de los propios autores se cuela continuamente en la ficción propuesta por los textos, una intromisión de lo (auto)biográfico que, por otra parte, se ve tematizada por los escritores en las entrevistas para los medios o, directamente en sus propios blogs. Es fundamentalmente a estas últimas formas de narrar la guerra a las que me dedicaré en la ponencia.

El autor y sus figuras en la obra del escritor uruguayo Carlos Denis Molina
Cécile Chantraine (Lille)


La obra del escritor uruguayo Carlos Denis Molina (1916-1983) pone en escena numerosas figuras del autor que no sólo aparecen en el género narrativo, sino que invaden también otros géneros como el teatro y la poesía. Entre ellas, se encuentran unas que postulan una patente dimensión autoficticia como en su novela Lloverá siempre (1953), mientras que otras se establecen como puestas en abismo del escritor en la ficción.

Estas representaciones que evocan al autor de formas diversas evocan la relación eminentemente reflexiva que Carlos Denis Molina mantenía con su obra aunque no teorizó su práctica literaria. Así, estas puestas en escena revelan e inspiran interrogaciones y reflexiones en cuanto a la representación del Yo en literatura: con cierto escepticismo, su obra cuestiona entre otras cosas los límites genéricos de la autoficción, la cual se solía reducir al relato, así como la noticia de la muerte del autor anunciada por la crítica literaria y la literatura de su época.

A través de esta experimentación autoficticia, Carlos Denis Molina parece también haber planificado el propio rescate de su obra, anticipando así curiosamente su olvido después de su muerte por diversas razones. Efectivamente, pese al éxito de su dramaturgia en los años cincuenta y a pesar de haber ocupado el puesto prestigioso de director artístico de la Comedia Nacional de Montevideo a partir de 1971, Carlos Denis Molina resulta hoy un escritor relativamente desconocido.

La autoficción en Luis Goytisolo
Herminia Gil Guerrero (Frankfurt)

En la novelística de Luis Goytisolo es observable un aumento gradual del ingrediente autobiográfico desde la que fue su primera novela, Las afueras o Las mismas palabras, pasando por su Antagonía y encontrando su punto máximo en la novela que ocupara nuestra reflexión en la ponencia: Estatua con palomas. En esta autoficción, Goytisolo consigue acercar hasta los límites las fronteras entre la realidad y la ficción, haciendo uso de una hibridez genérica que confunde narración autobiográfica, histórica y novelesca. Para ello el autor ha creado una estructura yuxtapuesta de dos historias independientes y aparentemente extrañas –de referente extratextual la una e histórico la otra– en las que emergen diversas voces narrativas que logran crear una polifonía y consiguen destruir cualquier restricción genérica

La construcción del disurco autoficcional: Procedimientos y estrategias
Ana Casas (Barcelona)


Una práctica habitual en la autoficción es convocar, dentro de esa forma proteica que es la novela, determinados géneros ‘asociados a la realidad’ (es decir, aquellos que proponen un pacto de lectura, según el cual el texto es susceptible de ser verificado), como la autobiografía, el diario o el ensayo, con la intención de poner en entredicho su presunta referencialidad. Mi ponencia se ocupa de las estrategias potenciadoras de la ambigüedad inherente a la autoficción, y que tienen por objeto introducir elementos ‘desestabilizadores’ de los límites y fronteras que convencionalmente han servido para distinguir los diversos géneros: desde el punto de vista formal, destacan las estructuras digresivas, hipotéticas y reiterativas; desde el punto de vista del narrador, la alternancia de voces y los cambios de focalización; y, desde el punto de vista estilístico, la mezcla tonal y la convivencia de distintos registros lingüísticos. Todos estos recursos (empleados con profusión en las novelas autoficcionales de Javier Marías, Enrique Vila-Matas, Antonio Muñoz Molina o Juan Antonio Masoliver Ródenas) contribuyen a la “des-referencialización” y, por consiguiente, a la ficcionalización de unos textos que, en principio, asumen la apariencia y las características de la autobiografía, el ensayo o el diario íntimo.
Soy yo y soy otro - autoficciones en los cuentos de O Cobrador y en la novela Vastas

Emoções e pensamentos imperfeitos de Rubem Fonseca
Ute Hermanns (Berlin)


Rubem Fonseca forma parte de las voces innovadoras de la literatura brasileña a partir de los inicios de la década de los sesenta . Su manera de renovar la lengua literaria, que crea un ritmo especial al integrar las palabras y expresiones idiomáticas de la lengua coloquial, enriqueció la literatura urbana e influyó a varios de los escritores jóvenes (Fernando Bonassi, Patricia Melo, Ana Miranda, Sérgio SantAnna y otros).

Rubem Fonseca se niega rotundamente a que le hagan entrevistas, porque considera que sus textos hablan por sí mismos.

En sus novelas, cuentos y ensayos aparece a menudo un narrador autoficcional, que se descubre como el Alter Ego del autor, para comentar, ironizar y burlarse de sí mismo. Con una lectura minuciosa intentaré analizar las estrategias y la función poética de la autoficción en los cuentos de O Cobrador y en la novela Vastas Emoções e pensamentos imperfeitos.