lunedì 10 maggio 2010

recensioni

Videogiochi e cultura della simulazione
La nascita dell'‘homo game’


Il Giornale - martedì 6 aprile 2010

Il destino del software - Ma quali romanzi e film sono i videogame a dire chi siamo e saremo

Mentre l'industria del videogame iniziava a fatturare come e più del cinema, l'accademia cambiava atteggiamento nei suoi confronti. Sono passati i tempi in cui i giochi elettronici avevano sostituito la televisione nelle rampogne degli intellettuali. Il tono apocalittico, nei lavori seri, è quasi scomparso e nessuno si chiede più che fine farà la gioventù a causa delle console. Anzi, è nata la ludologia, parente stretta della sociologia e della semiotica, che si interroga sul significato culturale del videogioco. Non solo per quello che ci dice della nostra società ma anche per l'influenza sottile ma importante che esercita sul nostro modo di essere.

Gianfranco Pecchinenda, preside della Facoltà di Sociologia presso l’università Federico II di Napoli, ha appena ristampato un suo saggio del 2003, con una prefazione nuova di zecca (Videogiochi e cultura della simulazione. La nascita dell'homo game, Laterza). Aggiornamento necessario di un libro comunque ancora attuale perché in questo breve lasso di tempo è successo un po' di tutto. Non solo in termini di incontenibile avanzata economica. Oggi più di allora è forse chiaro qual è l'obiettivo dei giochi di maggior impatto: abbattere i confini tra i generi e mandare in pensione Hollywood come è evidente dalla sceneggiatura complessa di titoli quali Heavy Rain (l'equivalente di un thriller psicologico) ma perfino da quella di avventure modello Lara Croft come Dante's Inferno o la saga di God of War tanto per citare due titoli recenti (l'equivalente degli action movie).

Le nuove tecnologie, scrive Pecchinenda, «pretendono la trasparenza e l'immaterialità di ogni identità». In rete e davanti alla console, attraverso l'avatar che guidiamo, non siamo corporei, siamo informazione digitalizzata. Le nostre identità sono «ibride, molteplici, virtuali, superficiali ed elastiche». Cioè sempre meno vincolate da concetti quali «autenticità, profondità, rigidità o altre roccheforti intorno alle quali si è venuta strutturando per secoli l'identità occidentale moderna». E siamo sempre più liberi di sperimentare, spesso protetti dall'anonimato, aspetti magari sconosciuti o inavvertiti di noi stessi. Siamo dunque uomini di vetro, la somma delle notizie reperibili su di noi nel web e poco altro? Forse non è il caso di esagerare, visto che il mondo reale continua a esistere, ma la tendenza pare questa e vale la pena approfondire.

Perdiamo qualcosa, acquistiamo qualcosa. Nella società postmoderna, la superficie prende il posto della profondità, la simulazione supera la realtà, il gioco prevale sulla serietà. Questa è l'estetica del computer, che si estende rapidamente in tutti gli ambienti, inclusi quelli di lavoro. L'homo game forse non ha conoscenze enciclopediche (a che gli servono? Il sapere è disponibile in rete), in compenso è creativo di fronte alle difficoltà. Il video-game ha avuto un'importanza fondamentale in questo processo perché ha insegnato ad agire al di là delle costrizioni della realtà fisica. E non solo. Il videogame ha abituato a pensare al tempo in termini ciclici e non progressivi (anche se si muore, si può sempre ricominciare da capo, no?); e ci spinge a pensare il mondo come un regno incantato al quale bisogna sottrarre segreti, chiavi d'accesso per avvicinarsi al progetto originario del programmatore-dio: una visione tipica delle culture non secolarizzate, chiosa Pecchinenda. Infine. Il videogioco, come più in generale ogni tecnologia digitale, tende a creare comunità virtuali di appassionati, utenti, smanettoni e così via. Comunità che trovano il massimo esempio nei milioni di adepti dei giochi di ruolo (tipo World of Warcraft) sul web.

La filosofia del videogioco, almeno fino a questo punto, si direbbe anti-intellettuale: punta sull'emozione, sull'identificazione e sull'assorbimento in tribù vitalistiche, aliene da ogni progetto politico o ideologico. Il progresso ha isolato l'uomo e svelato i misteri della natura ma questo processo forse si avvia verso un esito paradossale: sarà proprio la tecnologia a reincantare il mondo e a restituire una dimensione comunitaria alle persone. Chi l'avrebbe mai detto nel 1972 davanti a Pong, la prima rudimentale simulazione del tennis?

Alessandro Gnocchi (IL GIORNALE 6/4/2010)

1 commento:

Anonimo ha detto...

http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/030423.htm