domenica 17 aprile 2011

Raccontare per Essere (2)


Una persona deve inventare o raccontare bugie non al fine di ingannare o comportarsi in mala fede, ma per non lasciar morire la propria immaginazione. Uno ha il bisogno di riferire storie, di raccontare per essere, perché per qualche enigmatica ragione solo il lavoro della memoria trasformata in narrazione è ciò che ci fornisce un’idea di chi siamo: questo lavoro narrativo riguarda la nostra identità personale. Chi sono io? Come sono secondo me stesso? Come sono secondo gli altri? L’idea che ho di me stesso coincide con l’idea che gli altri hanno di me?
Da bambini abbiamo fame di storie. Desideriamo che ci si racconti qualcosa prima di passare a quell’altro mondo che è quello dei sogni. Perché è possibile che la nostra rappresentazione del mondo sia strutturata come una narrazione. Ci sono linguisti che dicono – come Mark Turner, ad esempio – che ogni volta che parliamo stiamo raccontando una storia. Qualunque cosa diciamo stiamo sviluppando un qualche aneddoto mentre introduciamo e tiriamo fuori personaggi, come se ci fosse in noi una certa predisposizione genetica innata verso la narrazione. È per questo che il filosofo John Searle afferma che il linguaggio ci costituisce e ci collega alla società: “Gli animali hanno gruppi sociali, ma non hanno nulla di simile alla civiltà umana. Perché? Perché quest’ultima è una conseguenza del linguaggio. Il linguaggio non solo rende possibile la civiltà, ma la crea. Il denaro, le vacanze, il governo, il matrimonio… tutto viene costruito dal linguaggio. Il linguaggio è l’elemento fondamentale delle relazioni umane.”
Il grande scrittore nordamericano William Maxwell, autore del romanzo Ciao, a domani (Marsilio) sostiene che ciò che attribuiamo alla memoria è una forma di narrazione che si sviluppa nella mente e si trasforma nel momento in cui viene raccontata.
Lo scrittore e neurologo Jesus Ramirez Bermudez, in una conversazione con Arturo Garcia Hernandez a proposito del suo primo romanzo, Paramnesia, parla proprio dell’atto di narrare o raccontare una storia. Parla dei giochi che avvengono nella nostra memoria quando narriamo qualcosa:
“Quando narriamo qualcosa pratichiamo una sorta di decorazione di noi stessi; si verifica una specie di distorsione della memoria, ma non per ragioni aleatorie, bensì per alcune necessità dell’identità personale. Ci creiamo un’identità e dobbiamo mantenerla a tutti i costi, anche se a volte si dissocia da ciò che siamo.” Jesus Ramirez Bermudez sa che la memoria inventa e non riproduce come quando si mette in moto un disco. La memoria è umana e per tanto sentimentale. Non può essere separata dall’emozione.
Lo ha appena raccontato anche il romanziere Günter Grass. Quasi tutti i suoi libri sono autobiografici, ma in Sbucciando la cipolla (Einaudi) egli parla di ciò che non aveva mai detto. “L’autore deve lavorare con i suoi ricordi, con la sua memoria. E sappiamo che la memoria tende ad imbellire le situazioni, a presentare questioni complesse sotto una forma sufficientemente semplice da poter essere narrabili”
Nasce da qui la sua sfiducia nei confronti della propria memoria e dei propri ricordi. Grass avrebbe voluto scrivere tutto in una sola volta. Poi però con il tempo ha cominciato a togliere le sfoglie alla cipolla ed ha cominciato a leggere tra l’una e l’altra, prendendoci gusto. “Inoltre si rendeva possibile qualcosa per niente facile, raccogliere quel bambino dell’anno 1939, una persona così lontana da me, e intraprendere una conversazione con lui.”
Continuiamo a essere come bambini: ad ogni istante inventiamo la nostra realtà. Detlev Ganten sostiene che per capire il ruolo dell’immaginazione nella memoria non c’è niente di meglio che ascoltare dei bambini che narrano le loro esperienze.
Ciononostante, nella creazione dell’opera artistica letteraria – fatta in silenzio e nella solitudine – sembra che le cose accadano in un altro modo; almeno non in maniera così deliberata e cosciente. C’è chi crede che l’io più profondo dello scrittore sia quello che si manifesta al momento della scrittura.
(CONTINUA)
L’ io che scrive non è l’io che vive tra le altre cose del mondo. L’io dell’artista è un io interiore, intimo e particolare, che cerca di esprimersi e che non giunge mai a stabilire nessun tipo di relazione con l’io storico, mondano e contingente.
(CONTINUA)

lunedì 4 aprile 2011

Raccontare per Essere


Raccontare per Essere
di Gianfranco Pecchinenda
(introduzione all’edizione italiana di Federico Campbell, Padre e memoria, Ipermedium libri 2011)


«Ho quarant’anni e so che la morte di un padre è un evento che lascia il segno e che la dovrò immortalare, se voglio chiamarmi scrittore». Questa frase, con la quale Alan Bennett sembra quasi voler giustificare il suo dilungarsi sulla figura paterna nel corso della sua delicata e commovente autobiografia,[1] potrebbe essere stata scritta da uno dei tanti autori che lo studioso messicano Federico Campbell analizza in questo bel libro che oggi appare in edizione italiana.
Sarebbero innumerevoli, in effetti, gli esempi nella storia della letteratura in cui traspare, dirompente, l’importanza della figura paterna nella vocazione di uno scrittore. Campbell ne cita molti, moltissimi: dai grandi classici, come Kafka, Dostoevskij, Borges o Rulfo, passando per diversi tra i più significativi autori contemporanei – Carver, Handke, Shepard, Auster, Pamuk, Roth, Franzen e tanti altri ancora – i quali, sempre con grande suggestione, riescono a tradurre, ognuno a suo modo e con la propria cifra stilistica, la ricerca di un rapporto con questa necessaria quanto ingombrante figura, così centrale per la conoscenza del sé quanto per la strutturazione di qualunque tipo di organizzazione sociale.
Se vogliamo, però, i diversi riferimenti al padre che accomunano molti dei capitoli che compongono questo libro, possono essere considerati anche uno spunto, se non un vero e proprio pretesto, per introdurre tutta una serie di altre importanti tematiche, variamente connesse tra loro, che riguardano la memoria, il vissuto temporale, l’identità, la narrazione, l’arte, la scienza. E la letteratura, soprattutto. Sì perché la letteratura – sembra volerci dire Campbell – ha qualcosa di proprio e di specifico da insegnare su molte delle questioni su cui le diverse discipline scientifiche si dibattono da sempre. Molti scrittori, e Proust in tal senso potrebbe essere considerato emblematico, sono stati spesso in grado di comprendere e spiegare alcuni dei meccanismi emotivi connessi al funzionamento del comportamento umano ben prima che tali spiegazioni venissero riconosciute e poi corroborate dalla ricerca scientifica, facendo ricorso alle diverse metodologie ad essa più consona… (continua)



[1] Alan Bennett, Una vita come le altre, Adelphi 2010.