mercoledì 11 gennaio 2012

PRE-APPELLO DEI GG. 19-20 GENNAIO 2010 (elenchi provvisori)

SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI

  ELENCO PRENOTATI PER LA PROVA DEL 19 gennaio 2012 - ORE 10 (AULA MAGNA)

Alescio Francesca            m13 1848
Amore Emanuele             m13 1969
Aprea Anna                      m13 1811
Barone Fabiana                m13 2104
Beatrice Annunziata        m13 1000
Brancato Maria                m13 1671
Brancato Simona             m13 1733
Cacace Francesca            m13 2056
Calabrese Lodovica         m13 297
Cammarota Anna Chiara m13 1678
Canale Marco                   m13 1833
Capasso Immacolata        m13 1970
Cecere Mariantoniella      m13 1769
Ceglia Maria                    m13 1668
Cerchia Melissa               m13 1929
Chianiese Giuseppina      m13 1626
Chiarolanza Stefania       m13 1855
Clemente Roberta           m13 1790
Colosimo Carmela          027 17579
Cosentino Alice              m13 171
Cosentino Mirko            m13 1721
Cozzolino Marina           m13 1822
De Gennaro Sara             m13 900
De Girolamo Pasquale      m13 1836
Del Prete Palma              m13 591
Del Savio Gabriella        m13 1697
D'Errico Giovanni         027/023506
Di Rienzo Gianni            m13 1769
Donnarumma Federica   m13 1703
D’Apolito Filomena        m13 1448

SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI
ELENCO PRENOTATI PER LA PROVA DEL 20 gennaio 2012 - ORE 10 (AULA MAGNA)

Figliuolo Noemi              m13 1748
Formato Marta                m13 1786
Fusciello Fabiana           m13 1384
Gatto Eleonora               m13 1389
Iannone Sara                  m13 1795
Infante Maria                 m13 063
Lettieri Chiara               m13 2508
Lobefalo Marzia            m13 1921
Loffredo Martina           m13 934
Lusidioso Anna             m13 2092
Maglio Fabiola              m13 1724
Marotta Ilaria                 m13 1827
Masi Flavia                   m13 1634
Mastrodonato Silvia      m13 1895
Mastrogiacomo Alba C. m13 1260
Messere Anna               m13 1926
Oliviero Anna               m13 1704
Parisi Annabella            m13 1264
Pinto Paola                    m13 990
Pirozzi Annamaria         m13 1675
Porcelli Vriginia            m13 1226
Ruffo Rosa                m13 1726
Russo Marica            m13 1684
Saccavino Luciana    m13 1725
Sarnataro Antonia     m13 1706
Savarese Valeria       m13 1708
Scognamillo Michela m13 257
Silvestri Rita             m13 1922
Somma Miriam         m13 1909
Tortora Alessandro   m13 233
Trapani Maria           m13 2024
Valente Donatella    m551 6631
Vitolo Roberta         m13 1927
Volante Simona       m13 1143

Chi desidera cancellarsi dagli elenchi dei prenotati può farlo, entro e non oltre lunedì 16 gennaio, inviando una mail al seguente indirizzo: pecchine@unina.it

Martedì 17 gennaio verranno pubblicati gli elenchi definitivi 

Tutte le delucidazioni relative al programma per i frequentanti sono state fornite durante il corso

domenica 1 gennaio 2012

Elenco prenotati appello-frequentanti


SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI
19 e 20 gennaio 2012

Alescio Francesca            m13 1848
Amore Emanuele             m13 1969
Aprea Anna                      m13 1811
Barone Fabiana                m13 2104
Beatrice Annunziata        m13 1000
Brancato Maria                m13 1671
Brancato Simona             m13 1733
Cacace Francesca            m13 2056
Calabrese Lodovica         m13 297
Cammarota Anna Chiara m13 1678
Canale Marco                   m13 1833
Capasso Immacolata        m13 1970
Cecere Mariantoniella      m13 1769
Ceglia Maria                    m13 1668
Cerchia Melissa               m13 1929
Chianiese Giuseppina      m13 1626
Chiarolanza Stefania       m13 1855
Clemente Roberta           m13 1790
Colosimo Carmela          027 17579
Cosentino Alice              m13 171
Cosentino Mirko            m13 1721
Cozzolino Marina           m13 1822
De Gennaro Sara             m13 900
De Girolamo Pasquale      m13 1836
Del Prete Palma              m13 591
Del Savio Gabriella        m13 1697
D'Errico Giovanni         027/023506
Di Rienzo Gianni            m13 1769
Donnarumma Federica   m13 1703
D’Apolito Filomena        m13 1448
Figliuolo Noemi              m13 1748
Formato Marta                m13 1786
Fusciello Fabiana           m13 1384
Gatto Eleonora               m13 1389
Iannone Sara                  m13 1795
Infante Maria                 m13 063
Lettieri Chiara               m13 2508
Lobefalo Marzia            m13 1921
Loffredo Martina           m13 934
Lusidioso Anna             m13 2092
Maglio Fabiola              m13 1724
Marotta Ilaria                 m13 1827
Masi Flavia                   m13 1634
Mastrodonato Silvia      m13 1895
Mastrogiacomo Alba C. m13 1260
Messere Anna               m13 1926
Oliviero Anna               m13 1704
Parisi Annabella            m13 1264
Pinto Paola                    m13 990
Pirozzi Annamaria         m13 1675
Porcelli Vriginia            m13 1226
Ruffo Rosa                m13 1726
Russo Marica            m13 1684
Saccavino Luciana    m13 1725
Sarnataro Antonia     m13 1706
Savarese Valeria       m13 1708
Scognamillo Michela m13 257
Silvestri Rita             m13 1922
Somma Miriam         m13 1909
Tortora Alessandro   m13 233
Trapani Maria           m13 2024
Valente Donatella    m551 6631
Vitolo Roberta         m13 1927
Volante Simona       m13 1143

lunedì 28 novembre 2011

Testi d'esame 2011-2012

I libri consigliati per sostenere l'esame di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi (a. a. 2011-2012) sono i seguenti:

Gianfranco Pecchinenda, La Narrazione della Società
Federico Campbell, Padre e Memoria
Marcel Gauchet, La democrazia da una crisi all'altra
Un quarto testo a scelta tra i seguenti:
L. Ferry M. Gauchet, Il religioso dopo la religione, Ipermedium libri
M. Maffesoli, Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna, Ipermedium libri
D. De Rougemont, Nuove metamorfosi di Tristano, Ipermedium libri
J.-J. Wunenburger, L'uomo nell'era della televisione, ipermedium libri

Tutti gli studenti iscritti agli anni accademici precedenti conservano il diritto di poter scegliere di sostenere l'esame sui testi indicati nel loro anno accademico di riferimento.

Si ricorda che l'orario di ricevimento per il primo semestre 2011-2012 è il Mercoledì dalle 12 alle 14

giovedì 27 ottobre 2011

La formula sociologica


Cosa Resta da Scoprire


    Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno del 27 ottobre 2011
                                           di Gianfranco Pecchinenda

Da quando l’uomo ha scoperto la sociologia, ovvero da quando ha preso coscienza che la fonte di ogni cambiamento si svolge nell’ambito di un complesso insieme chiamato società, si è sempre andati alla ricerca di una sorta di formula in grado di poter legittimare il passaggio da una strutturazione eteronoma dell’organizzazione umana a una autonoma.
Il dubbio di chi, come me, si occupa di scienze sociali, è che una scoperta del genere, quale che sia il tipo di marchingegno elaborato per portare a compimento la tanta agognata scoperta, potrebbe comportare, tra le conseguenze inintenzionali, la fine delle possibilità di qualsivoglia tipo di organizzazione sociale. Ogni società, infatti, esiste se e solo se i suoi membri sono messi in grado di poter coltivare l’illusione di una qualche forma di immortalità. C’è chi crede a un continuo e infinito ciclo di reincarnazioni, chi crede in una vita eterna che avrebbe inizio subito dopo la fine dei tempi, chi crede che la scienza possa curare la morte come se si trattasse di una malattia tra le altre, causata da un sempre incombente male che bisogna dunque combattere; c’è chi crede – in alternativa a quest’ultima posizione – che l’invecchiamento possa essere frenato, rinviato, eliso e, con esso, anche la morte stessa.
L’unica cosa certa, l’unico elemento in comune di tutte queste credenze è la loro precarietà, il margine d’incertezza che si nasconde dietro ad ogni possibile interpretazione del genere. Ed è proprio una tale precarietà a far sì che tutti i partecipanti a tali sottomondi umani, pur di far prevalere e di poter affermare il proprio riferimento immortale,combattano, indaghino, facciano ricerca, provino a scoprire soluzioni. Come d’altronde fa la scienza stessa.
Se la nascita della società moderna può essere considerata la messa in forma politica dell’autonomia dell’organizzazione umano-sociale, quello che manca da scoprire è la formula che possa rendere irreversibile (come erroneamente si è creduto potesse essere già accaduto nel corso degli ultimi due secoli) e universalmente accettato tale passaggio.
A lungo si è creduto che la secolarizzazione, ovvero la perdita della centralità della religione in ogni ordine istituzionale, potesse essere l’ingrediente essenziale di una tale potenziale formula. Il risultato pratico, come tutti sappiamo, è stato spesso l’emergere e il diffondersi di una nostalgia di assoluto che ha contribuito a forgiare ideologie ed esperienze storiche di carattere totalitario.
La sociologia può contribuire a fornire uno strumento d’analisi dei fenomeni sociali che si possa delineare come scevro da condizionamenti ideologici. Ciò in modo da configurare una comprensione dei fatti sociali e l’organizzazione delle relazioni umane tese a salvaguardare le istanze dell’autonomia e l’attenzione alla libertà e al diritto dei singoli individui.

venerdì 7 ottobre 2011

Gauchet et le néolibéralisme


Depuis quelques années, une obsession s'est emparée de notre vie intellectuelle : le néolibéralisme. Reprise de livre en livre, de tribune en tribune, l'idée selon laquelle l'enjeu essentiel de notre temps serait de dénoncer l'invasion des logiques néolibérales ne cesse de s'imposer
Le néolibéralisme, nous affirme-t-on en effet, transformerait le fonctionnement du monde contemporain. Il redéfinirait, bien sûr, les règles de l'économie. Mais plus grave, il bousculerait l'organisation traditionnelle de la société. C'est tout l'ordre social qui serait ébranlé par cette irrésistible lame de fond, et toutes les institutions sur lesquelles il repose (l'Etat, l'école, la famille, le droit, etc.) qui s'en trouveraient affectées : réfléchir sur ce qui se passe aujourd'hui, établir le diagnostic de notre présent, ce serait donc nécessairement devoir se pencher sur ces mutations, afin d'en évaluer les dangers et de forger des instruments pour leur résister.
On aurait pu espérer que tant d'attention portée à un même sujet donne naissance à une production particulièrement riche et inventive sur le plan des idées. Hélas ! Nous assistons plutôt à une uniformisation et à une limitation de la vie intellectuelle.
De la droite (Marcel Gauchet) à la gauche pseudo-révolutionnaire (Alain Badiou), de la gauche conservatrice (autour de la revue Esprit ou de la République des idées de Pierre Rosanvallon) à celle qui se présente comme radicale (autour d'Antonio Negri et de la revue Multitudes), on voit fleurir des analyses quasi superposables, qui mobilisent les mêmes perceptions, les mêmes grilles de lecture.
Et au coeur de ce concert unanime où le réflexe tient lieu de pensée, on trouve, bien sûr, une dénonciation de l'individualisme. Le néolibéralisme instaurerait le règne du moi, de l'égoïsme, du repli sur soi. Il fabriquerait un néosujet, l'homo oeconomicus, qui n'aurait aucun sens de la communauté, du collectif et ne se considérerait plus comme membre d'un groupe qui le dépasse : privilégiant toujours son intérêt particulier, il n'accepterait plus de se soumettre aux exigences indispensables pour faire ou refaire société (les normes ou les valeurs partagées, la réciprocité). Le sens du "social", de l'"institution commune", du "vivre ensemble" lui serait étranger : aujourd'hui, le "nous " serait subordonné au "je".
Dans ce portrait apocalyptique de nos sociétés que tant d'auteurs se plaisent à brosser, la critique des ravages du néolibéralisme économique passe vite au second plan. Car ce qui est ici constitué comme l'enjeu principal, pour ne pas dire unique, c'est la remise en cause des carcans collectifs qui enserraient et dirigeaient les actions individuelles.
La logique du marché et de la satisfaction particulière se développerait au détriment de l'obéissance à la morale, à la religion, à l'Etat, à la politique, etc. Ces instances régulatrices perdraient leur force prescriptrice. Et cette insoumission généralisée aux principes supérieurs aurait des conséquences désastreuses.
D'une part, elle provoquerait une crise du "lien social" (la désaffiliation), du soin mutuel (le"care") et le délitement des solidarités. Mais surtout, elle engendrerait une multiplication des mouvements minoritaires, ces phénomènes pathologiques au sein desquels les individus réclament des droits (on pourrait appeler cela... la démocratie) et où ils expriment leur refus de s'aliéner au monde du "symbole" et de la "loi" au nom de leur désir.
Dernier échantillon en date de cette litanie : l'ouvrage La Société des égaux (Seuil, 428 p., 22,50 euros), où Pierre Rosanvallon prétend que le néolibéralisme engendrerait une "décomposition des démocraties-sociétés" ! L'individu néolibéral ne serait plus un "citoyen". Ce serait un "consommateur", et, par conséquent, un être "diminué", "a-social", qui ne se définirait plus dans un lien avec autrui.
Et si cette désinscription par rapport à l'ordre des obligations sociales a pu être perçue, un moment, comme émancipatrice, elle déboucherait au final sur un démantèlement des institutions collectives : l'accroissement des marges de liberté individuelle aurait été payé au prix d'une "communautarisation des singularités" et d'une "destruction du monde commun".
Loin d'être originale, cette manière de voir constitue en fait, depuis plusieurs années, l'évidence partagée dans tous les secteurs de l'espace intellectuel et politique (ce qui nous imposerait d'ailleurs de nous pencher sur un phénomène curieux : pourquoi des auteurs - ou, du moins des individus qui se pensent comme tels - se succèdent dans l'espace public pour écrire ce qu'il est déjà possible de lire partout ailleurs et dire des choses mille fois dites et redites ?). On pourrait citer les écrits du sociologue Luc Boltanski.
Mais l'on se contentera ici de mentionner Alain Badiou. Car l'auteur de L'Hypothèse communiste (Nouvelles éditions Lignes, 2009) perçoit lui aussi la situation contemporaine comme marquée par une "commercialisation universelle", une "crispation identitaire", et une "dilution sociale ".
Et c'est la raison pour laquelle il appelle à ressusciter l'"idée communiste ", seule capable selon lui de favoriser le sentiment de chacun "d'appartenir à un même monde" et le "développement du même", contre la dynamique négative, car singularisante, des affirmations identitaires.
Evidemment, on ne peut que souscrire à l'objectif apparent de tous ces discours : dénoncer les effets désastreux du néolibéralisme. Mais derrière cette louable intention, se dissimule en fait un tout autre projet politique, particulièrement inquiétant, et même potentiellement dangereux.
Quelle est en effet la hantise qui traverse ce dispositif idéologique ? Ce sont moins les inégalités que ce qui est désigné comme l'"atomisation de la société" et la pluralité. Par conséquent, la volonté de reconstruire le "lien social", de redonner du sens à la vie en "commun " pourrait bien, sous couvert de s'en prendre au néolibéralisme, n'être qu'un effort réactionnaire pour annuler l'une des caractéristiques majeures des sociétés démocratiques : l'individualisation et la différenciation des modes de vie, et la prolifération des mobilisations minoritaires.
Dans les appels à restaurer le "vivreensemble" contre l'individualisme, les "valeurs collectives" contre l'"intérêt particulier", le goût de l'échange et des humanités contre la marchandisation se dissimulent des pulsions d'ordre, des aspirations autoritaires fort peu conformes à ce que l'on est en droit d'attendre d'une théorie radicale - et même, tout simplement de la gauche.
Illustration particulièrement symptomatique, l'ouvrage La Nouvelle Raison du monde (La Découverte, 2009), de Pierre Dardot et Christian Laval - qui coaniment, avec Antonio Negri, un séminaire intitulé "Du public au commun". Leur texte, qui vaut surtout comme incarnation idéale - typique du paradigme contemporain -, montre à quel point la critique du néolibéralisme tend à s'opérer au nom de fantasmes de régulation et d'encastrement particulièrement régressifs et effrayants.
Selon eux "l'affaiblissement de tout idéal porté par les institutions communes" donnerait naissance à une "désymbolisation" générale. La logique néolibérale détruirait les interdits qui structuraient le sujet. Elle générerait une crise des "voies normatives" et des transcendances "régulatrices".
Bref, tout se passe ici comme si la dangerosité du néolibéralisme résidait dans le fait que, à cause de lui, les individus étaient moins assujettis à la loi commune... et profitaient ainsi d'une possibilité plus grande de choisir la vie qu'ils veulent vivre ! On croirait lire du Benoît XVI : "Le rapport entre générations comme le rapport entre sexes, autrefois structurés et mis en récit par une culture qui distribuait les places différentes, sont devenus pour le moins incertains. Aucun principe éthique, aucun interdit, ne semble plus tenir face à l'exaltation d'un choix infini et illimité. Placé en état "d'apesanteur symbolique", le néosujet est obligé de se fonder lui-même, au nom du libre choix, pour se conduire dans la vie. Cette convocation au choix permanent, cette sollicitation de désirs supposés illimités fait du sujet un sujet flottant : un jour, il est invité à changer de voiture, un autre de partenaire, un autre d'identité, un autre encore de sexe, au gré du jeu de ses satisfactions et insatisfactions."
Elaborer une pensée de gauche aujourd'hui nécessiterait de tourner le dos à de telles incantations. Il nous faut fabriquer une nouvelle théorie critique, qui ne fonctionnerait pas comme une machine à dénoncer le matérialisme, l'individualisme, voire, tout simplement, la liberté, au point de faire l'éloge de l'ordre, de l'Etat, de la norme collective. Karl Marx s'en prenait, en son temps, à ce qu'il appelait la "critique précapitaliste du capitalisme".
Il nous faut aujourd'hui rompre avec la critique prélibérale du néolibéralisme. Ce qui nous imposerait de nous placer résolument du côté du désordre, de la dissidence, et donc de l'émancipation.

lunedì 19 settembre 2011

Democrazia emotiva: Intervista a Marcel Gauchet

Gauchet

«Il modello democratico nato nel dopoguerra è oggi in crisi. Pensavamo che avesse raggiunto l' equilibrio e invece siamo alle prese con problemi sempre nuovi. Se vuole sopravvivere, la democrazia deve sapersi reinventare».

Da molti anni Marcel Gauchet s' interroga sulle forme e i problemi della democrazia, una tematica a cui ha dedicato diversi studi, ultimo dei quali L' avènement de la démocratie, un vasto progetto, il cui terzo volume è arrivato nelle librerie da qualche mese: A l' épreuve des totalitarismes 1914-1974 (Gallimard). Lo studioso francese che insegna all' École des Hautes Études en Sciences Socialese codirige la rivista Le Débat - ricorda che il lungo processo attraverso il quale la democrazia si è affermata in Europa segna la progressiva fuoriuscita dal modello religioso che nei secoli precedenti aveva strutturato la società.

«Tra il XIX e il XX secolo, grazie all' avvento del potere rappresentativo, dell' eguaglianza tra le persone e dell' individualismo, la forma democratica si è sostituita all' organizzazione religiosa della società», spiega Gauchet, che in Italia è noto per Il disincanto del mondo (Einaudi)

«Il potere della monarchia e dell' aristocrazia, le enormi disuguaglianze, l' aspetto tradizionale dell' organizzazione temporale delle società, l' autorità dei modelli del passato, il primato della collettività sull' individuo erano tutti elementi che caratterizzavano l' organizzazione religiosa della società e che le democrazie hanno progressivamente ridimensionato».

In questo processo che ruolo svolgono i fenomeni totalitari della prima metà del Novecento? «La democrazia in cui viviamo ancora oggi è nata dopo la Seconda guerra mondiale proprio come reazione all' esperienza terribile dei totalitarismi, che possono essere letti come il tentativo di ricreare - con i mezzi della politica e all' interno di uno spazio laico - la precedente forma religiosa della società. Il fascismo, il nazismo e il comunismo sono religioni secolari, possiedono una marcata dimensione religiosa, pur presentandosi come movimenti antireligiosi».

Una delle caratteristiche dei totalitarismi è la relazione diretta tra il capo e il suo popolo... «Il potere totalitario s' incarna sempre in una persona, reinventando così il potere sacrale della monarchia. Hitler, Stalin o Mussolini sono la reinvenzione di una figura del passato. Fascismo, nazismo e comunismo sono ideologie, che, per quanto laiche, hanno svolto lo stesso ruolo svolto dal discorso religioso nelle società del passato, investendo ogni ambito della realtà e dando un senso al tutto. Attraverso il partito totalitario, l' ideologia e la figura del capo il totalitarismo cerca di ricreare qualcosa che assomiglia a una comunità organica».

Le democrazie nate alla fine della guerra hanno fatto di tutto per opporsi a tale eredità? «Certo, e al contempo hanno rifondato i vecchi regimi liberali. Le democrazie politiche europee, pur tra molte contraddizioni, sono riuscite a garantire un decisivo progresso rispetto al passato. Si sono ridefinite in tutti gli ambiti, riuscendoa stabilizzare i regimi democratici del dopoguerra. Dalla democrazia formale e astratta d' inizio secolo, si è così passati a una democrazia con contenuti più concreti che ha garantito la ricostruzione politica e economica dell' Europa del dopoguerra».

Questo modello, che ha iniziato a mostrare i primi segni di cedimento alla fine degli anni Settanta, è oggi in crisi? «Sì, e soprattutto in Italia. Le ragioni sono diverse, non ultima la mondializzazione che ha contribuito a rendere inefficaci i meccanismi politico-sociali che avevano consentito il boom economico. L' importanza dei media, la rivoluzione tecnologica e l' affermarsi di un individualismo sempre più marcato hanno rimesso in discussione l' assetto democratico tradizionale, riportandoci a una situazione che, seppure in termini molto diversi, ricorda quella dell' inizio del secolo scorso».

Chi governa sembra spesso impotente di fronte alle derive della mondializzazione. Per questo, c' è addirittura chi parla di governo delle cose... «E' vero, ma è un fenomeno ambiguo, perché non controllare politicamente l' economia è una scelta politica. L' idea che i mercati siano capaci di autoregolarsi, senza che non si possa o non si debba intervenire, è un' ideologia politica che si è imposta negli ultimi decenni dominati dal neoliberalismo. Non sono le cose che hanno preso il potere, siamo noi che l' abbiamo conferito loro. Diciamo spesso che viviamo in un mondo postideologico, dove non ci sarebbero più le ideologie, ma non è vero. Le ideologie ci sono eccome, anche se spesso le loro conseguenze vengono presentate come un dato di natura».

Perché l' immagine degli uomini politici oggi è tanto screditata? «La politica ha perso quel poco d' autorità naturale ereditata dal passato che ancora le restava, perché i politici hanno fatto di tutto per mettersi all' altezza dell' uomo qualunque, inseguendo il senso comune, l' opinione diffusa, puntando sulla comunicazione e sulla seduzione».

Sfruttando la scorciatoia del populismo? «Gli uomini politici vorrebbero far credere che conoscono i problemi della gente, proponendo soluzioni semplificate. L' appello al popolo - che però è una realtà sempre meno omogenea- implica spesso una qualche forma di demagogia. I moderni mezzi di comunicazione che per altro, in passato, hanno fatto benissimo alla democrazia - offrono possibilità infinite ai demagoghi. Dalla demagogia della semplicità a quella dell' emozione, che stimola le reazioni emotive più che il ragionamento».

In Italia, Berlusconi tenta spesso di contrapporre il popolo alle istituzioni... «Accade anche in Francia e in molti altri paesi europei. La retorica populista che oppone l' élite istituzionale al popolo incontra dappertutto un indiscusso successo, perché coglie qualcosa che è effettivamente sentito dalla parte più debole della popolazione, quella che ha meno strumenti per comprendere e intervenire sulla realtà. I populisti fanno appello al risentimento di chi si sente escluso, abbandonato e impoverito. Chi si sente relegato ai piani inferiori della società, senza la possibilità di modificare la propria vita, ha bisogno di credere in un potere capace d' intervenire concretamente. Chi è realmente senza potere sogna un potere forte».

La democrazia sopravviverà alla crisi attuale? «Solo se saprà rigenerarsi, avviando importanti trasformazioni, come quelle che hanno avuto luogo nel dopoguerra. In futuro i modi di governare si trasformeranno radicalmente e le forme della discussione pubblica diventeranno di nuovo centrali. Oggi siamo nella fase della stupefazione di fronte alla crisi. Da qui in poi inizia la fase della reinvenzione, anche se è difficile immaginare quali sarannoi risultati concreti. Un eventuale cambiamento potrà venire solo dai cittadini, i quali però negli ultimi anni hanno spesso preferito ripiegarsi nel privato. D' altronde, proprio l' onda lunga dell' individualismo e della disaffezione alla politica ha molto logorato la democrazia. Oggi, tuttavia, in molti iniziano a rendersi conto che è necessario tornare ad occuparsi dei problemi di tutti. E per questo che si torna alla politica. E questo è un fatto positivo».

Da "La Repubblica", 24 agosto 2011

lunedì 12 settembre 2011

Recensioni

La ritirata della morteRecensione apparsa su IL MATTINO (8/8/2011)


LA RITIRATA DELLA MORTE E I FIGLI DEL DESIDERIO. UN’INDAGINE SULLA CONTEMPORANEITÀ

di Gianfranco Pecchinenda

Cos’è che ha reso così particolare e specifica la società occidentale moderna? Cos’è che le ha conferito quel carattere di assoluta unicità tra tutte le società mai esistite nella storia? A domande del genere, com’è noto, molti studiosi hanno provato a fornire risposte più o meno originali, più o meno complesse. Da quelle che si rifanno a una sorta di determinismo tecnologico, in cui vengono chiamate in causa, quali variabili indipendenti, a seconda dell’epoca, strumenti quali la radio, il cinema o il telefono, piuttosto che la televisione o i nuovi media; oppure a un determinismo opposto in cui vengono ripresi motivi causali più tradizionali come la secolarizzazione e la scomparsa di riferimenti etici più o meno trascendenti, il crollo dei valori familiari, lo sviluppo economico e il consumismo, il conflitto politico, generazionale e così via. Il sociologo francese Paul Yonnet, dal canto suo, in un volume appena tradotto in italiano dal piccolo ma sempre attento ed elegante editore campano Ipermedium libri (Paul Yonnet, La ritirata della morte, pp. 534, euro 25), presenta una tesi particolarmente innovativa ed efficace: ogni tentativo di analisi della modernità occidentale è destinato a restare parziale – egli sostiene – se non si comprende un presupposto divenuto assolutamente universale e sul quale si basa tutta l’organizzazione collettiva di questo tipo di società, a partire dalla costituzione della famiglia fino a giungere alla più complessa delle istituzioni. Tale presupposto è da ricercarsi nel fenomeno epocale da lui definito la ritirata della morte.
Con questa espressione Yonnet intende riferirsi – come sintetizza efficacemente il curatore dell’edizione italiana, Antonio Cavicchia Scalamonti – a quella profonda transizione demografica che ha determinato la quasi scomparsa della mortalità infantile, cui si è affiancata la notevole diminuzione della mortalità dovuta al parto. A partire da questo fenomeno, sostiene Yonnet, tutta una serie di indicatori convergono e spiegano molte delle più originali e inedite caratteristiche dell’attuale società. Si va dalle trasformazioni della struttura e delle funzioni della famiglia, passando per le metamorfosi nella condizione femminile e paterna, all’emergere di una nuova psicologia delle età e dei sessi, alla trasformazione dell’adolescenza, fino allo straordinario riadattamento statistico tra fecondità e mortalità che sta completamento modificando l’antropologia del nostro mondo attuale.
A proposito di quest’ultimo tema, forse il più significativo e problematico tra quelli analizzati in questo prezioso volume, il sociologo francese individua tre stadi della storia della progressiva riduzione della fecondità: il primo, che egli definisce della riduzione attraverso il matrimonio ritardato, avrebbe caratterizzato in particolare la Cristianità medioevale; il secondo – della riduzione nel matrimonio, è quello che ha regolamentato la fecondità fino all’avvento dell’ultimo periodo, quello attuale, in cui la fecondità viene controllata grazie alle tecniche contraccettive e all’aborto, dando vita – tra le conseguenze principali – all’emergere di una nuova tipologia di individuo, unica e assolutamente inedita: il figlio desiderato.
In estrema sintesi, se la finalità dell’istituzione-famiglia era un tempo quella di provvedere alla realizzazione di un equilibrato ricambio generazionale, oggi la sua funzione è completamente diversa: la riproduzione cambia senso, non è più un obbligo sociale e il figlio diventa quasi solo ed esclusivamente un “figlio desiderato”, ovvero voluto e programmato in modo molto razionale. Su di lui si investe, e tale investimento rappresenta un chiaro indicatore di un diverso orientamento psicologico della famiglia. Se a questo fenomeno aggiungiamo quelli già accennati – e che Yonnet descrive facendo riferimento a un ricco insieme di dati, tra cui, non ultimo, l’allungamento della vita media – ecco emergere ulteriori significative trasformazioni, come ad esempio l’impressionante concentrazione statistica della morte nelle età avanzate e la conseguente completa ridefinizione delle età della vita. Il culto della gioventù – frutto maturo di questi nuovi orientamenti – si sposa con la nuova costruzione temporale in cui il futuro fa oramai agio sul passato, l’autorità e il prestigio degli anziani seguono la generale valorizzazione della tradizione, e la gioventù, intesa come proiezione nel futuro e anche come periodo di formazione e preparazione per l’esistenza, viene sostanzialmente mitizzata e presa a modello anche dagli stessi anziani.
Una delle conseguenze più sconcertanti dell’intero processo sembra essere in conclusione l’emergere di nuove generazioni che si sentono sempre più legittimate a coltivare una perenne immaturità, accompagnata da un delirante sentimento di immortalità. “Il figlio è allevato come un immortale in un mondo di immortali” – chiosa Yonnet – e dietro questa negazione della morte si rivelano però, assumendo forme sempre più preoccupanti, atteggiamenti che tradiscono tutta la loro acerbità, quali l’esaltazione per il benessere fisico e il terrore per ogni forma di malattia, il consumo ossessivo di morte negli spettacoli televisivi sia di fiction che di informazione, così come molti dei comportamenti al limite della patologia legati ai videogiochi e al gioco d’azzardo, al consumo di alcol e di droghe, alla paura talvolta anche maniacale di essere lasciati soli o di non essere sufficientemente, appunto, desiderati.